Chiusa l’era delle guerriglie?
Sendero luminoso, sandinisti, montoneros, tupamaros, zapatisti, Fmln, Farc, Eln, Mir… Sotto queste e altre insegne uomini donne e bambini hanno abbracciato un fucile per decenni in nome della libertà e per la difesa di contadini, indigeni e operai. Le forze armate dei loro Paesi, coadiuvati da altri gruppi paramilitari civili, hanno combattuto i gruppi guerriglieri rurali o urbani (spesso con l’aiuto di governi stranieri, come del resto anche i loro avversari), fino ad annichilarli o a giungere ad armistizi ed accordi che hanno spostato il conflitto sul terreno della politica. Sono state guerre “civico-militari” sanguinosissime, che hanno rafforzato anziché debilitare le dittature militari, tra inenarrabili aberrazioni, umiliazioni e abusi.
Con il disarmo delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, al quale si sta per aggiungere la seconda guerriglia colombiana (l’Eln), e il recente cambio strategico del messicano Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) sta consumando l’atteso addio alle armi delle milizie rurali e urbane sudamericane.
Il processo di trasformazione dell’Ezln è degno di attenzione. Il mondo lo conobbe con la dichiarazione di guerra all’esercito messicano e l’epica occupazione di sette municipi dello Stato del Chiapas, all’inizio del 1994. Fu celebre soprattutto per la marcia pacifica “del colore della terra” su Città del Messico, condotta dal carismatico subcomandante Marcos e alla quale aderirono più di un milione di persone e personalità come Danielle Miterrand, José Saramago e Alain Touraine.
L’Ezln attaccò il 1° gennaio 1994, giorno dell’entrava in vigore del Trattato di Libero commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico (Nafta). I combattimenti causarono oltre 100 morti nello Stato meridionale a maggioranza indigena dove i tre quarti della popolazione viveva nella povertà. Il Chiapas: il più povero, più indigeno e più analfabeta del Paese. La ribellione fu sconfitta, ma l’Ezln mantenne la lotta col governo per oltre un decennio. Esigeva la fine della discriminazione verso gli indigeni, i cui diritti collettivi e individuali erano stati storicamente negati. L’obiettivo era ed è una democrazia basata sulla libertà e sul socialismo autogestito, altermondista e universale.
Nel 1996 si aprì una speranza con la firma degli Accordi di San Andrés, che prevedevano il riconoscimento dei diritti indigeni nella Costituzione e l’elevazione delle comunità a soggetto di diritto pubblico abilitato a ricevere fondi statali ed amministrarli localmente. Sarebbe stato un enorme passo in avanti. “Sarebbe stato”, perchè rimase lettera morta. In questo quadro fu convocata nel 2011 la citata “Marcia del colore della terra”, che fece uscire il dramma indigeno dall’invisibilità, anche grazie al carisma del subcomandante Marcos. Scrisse in una lettera nel 2003: «La nostra lotta ha un codice di onore, ereditato dai nostri antenati guerrieri, che include, tra l’altro: il rispetto alla vita dei civili (anche di quelli che svolgono incarichi nei governi che ci opprimono); non ricorrere al crimine per ottenere risorse (non rubiamo neppure nel negozietto del paese) e non rispondere col fuoco alle parole». Nel 2005, avvenne il primo grande cambio di rotta, con la denominata “Altra campagna”, quella cioè non militare ma pacifica, anche se alquanto bellicosa con le armi della parola.
Tre anni fa, Marcos lasciò il posto al Subcomandante Moisés. Rimane presente, ma in secondo piano. Già all’inizio del movimento armato, ebbe a dichiarare: «Non siamo entrati in guerra per uccidere né per farci ammazzare, ma per farci ascoltare». Su questa linea è avvenuto il cambio strategico del Congresso nazionale indigeno (Cni) di fine maggio. 3 mila rappresentanti di 58 popoli indigeni di tutto il Messico – 10 milioni di persone, ovvero oltre l’8 % della popolazione – hanno scelto una rappresentante per il recentemente istituito Consiglio indigeno di governo, con l’obiettivo di presentare la sua candidatura per le presidenziali dell’anno prossimo. È María de Jesús Patricio Martínez, di 57 anni, conosciuta come “Marichuy”, dedita alla medicina tradizionale. La sua prima meta sarà raccogliere circa un milione di firme, necessarie per l’inscrizione come candidata indipendente. Per Marichuy, ciò che importa è «scuotere l’intero sistema politico». La campagna elettorale servirà a promuovere la vita e «la ricostituzione dei popoli, contro la corruzione, la repressione, il disprezzo e lo sfruttamento».
È questo il cambio più profondo nell’Ezln: alleandosi con il Cni, punta alla forza della “geografia indigena” sull’intero territorio nazionale e sul consenso, rinunciando ad assolutizzare l’esperienza locale dei governi municipali autonomi zapatisti e delle loro giunte di buon governo. Non è poca cosa, in effetti, per un gruppo che ha sempre rifiutato i processi elettorali e i partiti politici. E che sa che, tuttavia − come recita una sua celebre frase −, «le urne non bastano a contenere i nostri sogni».