Chiudere i conti con la storia

Ascadenze ravvicinate si susseguono quest’anno le commemorazioni degli eventi che sessant’anni fa, sui diversi fronti dell’ultimo grande conflitto mondiale, segnarono la fine della guerra. Non erano bastati i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche per piegare gli ultimi irriducibili asserragliati con Hitler nel bunker di Berlino. Ci sarebbero volute, in agosto, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki per convincere i giapponesi a non immolarsi fino all’ultimo uomo. Certo, la percezione di questo avvenimento fu assai diversa in ogni paese dove venne vissuto. E diverso ancora oggi ne è il ricordo, nonostante i tanti anni trascorsi. Per molti quel giorno segnava la vittoria sul nemico, o, più idealmente, la vittoria della democrazia sulla dittatura. Per altri, ovviamente, la sconfitta. Per tutti la fine di un incubo, perché quella guerra era durata ben oltre la sconfitta, fino all’annientamento. Chi in Italia ha memoria di quei giorni, ricorderà la festa spontanea di popolo che ci fu nelle nostre città liberate. I tedeschi con le frequenti rappresaglie operate, avevano sortito l’effetto di farsi temere, ma anche odiare. E gli italiani dimenticarono in fretta di avere osannato Mussolini. Chi poi non aveva gettato alle ortiche il proprio passato dovette restare nascosto, oppure emigrare; e lo fece. Qualcosa di simile avvenne in Francia, che pure era stata in parte collaborazionista con gli occupanti, ma che ora sedeva al tavolo dei vincitori. Ben diverso fu il trauma che conobbe la Germania. Prostrati fisicamente e psicologicamente, i tedeschi avevano subito perdite immani, avendo combattuto fino allo stremo la guerra voluta dal Führer e accettata dalla grande maggioranza di loro. Era finito un incubo, ma il senso di liberazione affiorò molto più lentamente. Più forte era lo shock per avere perso tutto e, per molti, per avere sbagliato troppo. Importanti regioni orientali erano perdute per sempre. Le città princi- pali erano distrutte. L’Armata Rossa era accampata sull’Elba e, per non lasciarla proseguire, anche la parte occidentale del paese restava occupata dagli eserciti alleati. Milioni di profughi affamati affollavano le regioni occidentali. Ma c’erano anche i paesi dell’Europa centrale e orientale fra le nuove vittime dell’occupazione sovietica. A cominciare dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia che pure, in linea teorica, avevano vinto la guerra. L’esultanza per la liberazione, nei paesi ad Est della Cortina di ferro, durò ben poco. Per cinquant’anni essi avrebbero costituito quell’Europa che fu sacrificata alla ragion di stato e agli interessi dei cosiddetti Grandi che a Yalta si erano spartiti il continente in zone d’influenza. Niente di strano, dunque, nel riconoscere che la percezione dell’8 maggio 1945, giorno della definitiva capitolazione nazista, fu e rimase assai diversa. I popoli dell’Europa centrale e dell’Est si sarebbero sentiti finalmente liberi solo dopo il crollo del muro di Berlino, con la partenza degli ultimi soldati sovietici. E risarciti per tanti anni di forzato abbandono da parte delle democrazie occidentali, solo con l’offerta di venire integrati in tempi brevi nell’Unione europea. Storia fin troppo nota, questa degli ultimi sessant’anni, richiamata ancora una volta alla memoria in questi giorni, proprio sulla piazza Rossa di Mosca, per celebrare il sacrificio dei soldati sovietici e la parte determinante avuta da loro nella caduta del nazismo. Il momento era atteso, ma si era caricato di una latente contestazione fortemente percepibile. Il presidente americano Bush sarebbe stato presente alla festa indetta dal presidente russo Putin, non senza avere messo in agenda di visitare anche la Lettonia e la Georgia, i paesi più critici verso il perdurare nei loro riguardi delle ingerenze di Mosca. Insomma, a questa rievocazione di un passato dalla lettura ancora controversa, si sarebbero trovati insieme vinti e vincitori, traditi e traditori, forse per chiudere le vecchie ferite, forse per rischiare di riaprirle. A cose fatte, dobbiamo ora riconoscere che è andata assai meglio di ogni speranza. Anche per la prudenza dimostrata da Putin che, senza eccedere nei trionfalismi, ha dosato in più tempi le celebrazioni, per non offendere né la storia, con i suoi milioni di morti, né i risentimenti di una parte dei sopravvissuti. Discorsi ufficiali a parte, sono stati fatti, soprattutto dai tedeschi, commenti approfonditi e convincenti che fanno riflettere. Il loro è pur sempre il paese che ha dovuto fare più crudamente i conti con il proprio passato, risolvendo molte delle proprie contraddizioni. Il futuro, aperto da quella vittoria di sessant’anni fa, ma ancora di più dalla pacificazione che lentamente ne seguì, dovrà davvero essere solo di pace. Ormai è nei voti di tutti. Mentre il presente si carica di una nuova grande responsabilità, perché pagine così drammatiche di storia mai erano state scritte e condivise. Stanno maturando i tempi perché pure la Russia, come la Germania e come tutte le altre nazioni del Vecchio continente, possa finalmente riconoscersi ed essere riconosciuta in un’Europa consacrata all’unità. L’augurio è che non resti un auspicio.

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