Chiudere gli occhi e guardare
Il mio giudizio è ovviamente e come sempre discutibile, ma in quasi cinquant’anni di esperienza letteraria ho imparato a distinguere i diamanti dagli zirconi e questi dai fondi di bicchiere, e se ora parlo di un libro davvero bello il lettore può ipotizzare che ciò che affermo sia vero. Cinquant’anni sono anche quelli della gestazione di questa grande opera poetica, lontana da mode e da modi (rileggete, vi prego, il Dialogo della moda e della morte di Leopardi), vicina solo ai grandi classici e soprattutto a Leopardi, appunto. Inoltre ho il conforto della perfetta armonia del mio giudizio con quello di Elio Gioanola, che firma la puntuale e calda Introduzione. Elena Bono compie così il terzo capitolo della sua opera, quello poetico, avendo concluso proprio in questi giorni il ciclo narrativo Uomo e superuomo, e continuando la fervida opera teatrale. Affida la sua realizzata espressione poetica all’editore di sempre (Le Mani, Genova- Recco, pp. 448), come sempre andando incontro a un destino di incomprensione pari alla sua grandezza , per aver perseguito con ascetica dedizione la congiunzione assoluta di etica ed estetica – che era già in Manzoni -, e che comporta il carico della croce (Gioanola). Il critico che ho appena citato coglie perfettamente, e perciò lo cito ancora, 1’imponente fenomeno di spiritualizzazione, per cui lo smarrimento del corporeo, dell’istintuale, del vitalistico è in funzione della conquista dell’essenziale, che presuppone l’abbandono all’altrove, all’infinito. Una devitalizzazione in vista di una più autentica vita, una perdita apparente in vista di un acquisto per sempre; per concludere che forse non c’è stata altra vita d’artista, nella nostra modernità poetica, così radicalmente offerta ad una vocazione. Io, non sapendo dove mettere le mani per il talento e l’abbondanza di risultati che ho davanti a me, mi spingo a fare un conto che non ho mai fatto: delle 298 poesie ne ho contate (sono severo) 77 belle, 40 bellissime, e sono percentuali inaudite, anche perché le altre non sono affatto brutte, sono buona o ottima letteratura in cui, a mio parere, prevale l’intenzione volontaria sull’evento poetico; ma siamo e restiamo sempre ad un alto livello. Ora preferisco, invece di smarrirmi in citazioni isolate, cercare di descrivere brevemente i pilastri portanti di queste poesie. Il primo, nella bellissima lirica proemiale, è un verso tra i massimi del Novecento: Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare; che da solo certifica il grande poeta. Il secondo è l’amplissimo spazio creativo assegnato non solo alla tematica, ma alla forma della poesia pagana (più esattamente, mitologica) e soprattutto orientale, in particolare cinese – l’incontro con i poeti classici del Celeste Impero deve essere stato cruciale e rigeneratore per la Bono. Perché, mi chiedo, tanto più in una poetessa così profondamente, e non ostentatamente ma intimamente, cristiana? Il perché l’ho ricavato alla fine della lettura, dopo i mille soavi eleganti finissimi riflessi poetici orientali (non orientaleggianti!), preziosi come una porcellana Ming: la Bono ha un altissimo senso e sentimento di quella che i teologi definiscono la rivelazione naturale di Dio, così poco sentita dai cristiani occidentali e dai teologi stessi, e così oggettiva ed eloquente, invece, nelle grandi tradizioni poetiche non occidentali. In tal modo il pilastro orientale si fa armonicamente complementare a quello cristiano – classico e romantico -; e questo si rende altrettanto complementare a quello dolce e potente della poesia civile, così poco presente nella nostra letteratura, e che ispira tra l’altro le grandi liriche dedicate a resistenti antifascisti e antinazisti, senza nessuna tangenza ideologica o partitica, in purissima testimonianza, umana morale e spirituale alla libertà che non cede; pagine alte, fraterne, feriali e solenni, di un’attualità, pur nella divertita Italia di oggi, immutabile. A riprova, questi versi: Nessuno te l’ha detto/ che un animo da re ci vuole/ per entrare negli alti/ palazzi della morte,/ non da qualunque porta/ alla rinfusa gettati/ ma dalla grande entrata/ a testa dritta/ graziosamente/ recando le ferite come fiori in dono/ mentre il Signore si affretta all’incontro/ giù per la scalea aprendo le braccia./ Nessuno te l’ha detto,/ ragazzo di campagna./ Ma così tu sei entrato. C’è, e lo si è appena visto, l’altro, importantissimo perché onnipervasivo, e positivo, pilastro della morte. Non esibito, o insistito, e tutt’altro che predicatorio. Qui la morte non è monito o timore, è la necessaria e vera foce dell’esistenza che traspare in ogni suo tempo o paesaggio (mi viene in mente La foce del Cinquale di Carlo Carrà), è la corrente dei suoi flutti, perché solo ciò che davvero vive muore, è la sua feconda solitudine (Il cuore più solitario di tutti/ a tutti appartiene) che sa soffrire ancora la bellezza sofferta, e per ciò ha doni davvero per ciascuno. Ma senza orgoglio di sé, anzi oscillando tra confessione e persuasione sempre più profonda, sempre più pronta al congedo. Il motivo vitale della solitudinemorte è a mio parere il più alto dell’opera, e l’attraversa totalmente rinsaldando in sé stessi e tra loro tutti gli altri pilastri portanti, per questo Elena Bono può dire senza enfasi: Canto quel tutto che s’acquista/ tutto perdendo, e, raggiungendo anche espressivamente la misura del classico (con infinita eco omerico-cristiana), Cuore, sopportami tutto e non domandare./ Soffri soltanto. Io sola so perché. Ma ho detto veramente poco in una piccola recensione. Il lettore scoprirà da sé molto di più in questo libro-opera omnia poetica che, come pochi altri antichi e moderni, si può in coscienza definire compagno di viaggio, di quelli che si prendono e riprendono, pur a distanza (di tempo, non del cuore), senza mai stancarsene. Grazie, Elena Bono.