Una Chiesa dalle porte aperte
Durante una conferenza sui temi della finanza due adolescenti si stavano dimostrando attentissimi. Erano collaboratori di Radio Immaginaria, un network dei ragazzi. Dialogando con loro a margine dei lavori arrivano importanti domande: «Che cosa possiamo dire ai nostri genitori per convincerli ad essere piùconsapevoli di come usano il denaro? Come possiamo far capire loro che non possono lamentarsi di un mondo che non funziona, se poi loro stessi con le loro scelte contribuiscono a farlo andare così? Si dice che noi giovani non siamo interessati ai grandi temi, per esempio all’economia e alla finanza, ma quanto dipende dal modo in cui ci vengono trasmessi?».
Domande a degli adulti, sugli adulti: l’incontro tra generazioni rimane quindi imprescindibile, a condizione che includa l’interlocutore e divenga uno scambio. La prima generazione del nuovo millennio non vuole fare a meno o liberarsi di noi adulti, anzi. Il punto è che molte volte non riusciamo a interagire, perché le aspettative reciproche non si incrociano. Vorremmo che fossero pronti ad ascoltare quello che abbiamo da dire e da trasmettere e loro si aspettano, piuttosto, di trovarsi davanti a persone che li comprendano, che li guardino con fiducia e che li sollecitino nelle loro potenzialità e nel superamento di difficoltà e disagi. «Siamo chiamati a investire sulla loro audacia ed educarli ad assumersi le loro responsabilità»(DF 70): a questo ci richiama il Sinodo. Il tempo che stiamo vivendo è affascinante e dobbiamo riconoscere che i giovani ci stanno abituando alla possibilità di un cristianesimo più genuino, con meno sovrastrutture. Quando ci si riesce, anche mettendosi in gioco –rispondendo alle domande con sincerità e calore, raccontando di sé e anche dei propri errori, non nascondendo che si è persone normali, che sanno divertirsi, stare in compagnia e godere delle cose buone della vita –si contribuisce a scardinare l’idea di un cristianesimo triste, fatto di doveri, di morale, di giudizi e pregiudizi.
È questa una percezione molto comune, infatti, pur trattandosi di una grande distorsione dell’evento cristiano: un Dio che si è fatto carne e non chiede sacrifici, ma si fa sacrificio per noi. Racconto un altro esempio. Durante un’esperienza negli Stati Uniti, con giovani universitari impegnati per tre settimane a ritmi serrati in un centro di ricerca, si celebra la messa nella casa condivisa. Sembra davvero di ritornare alle origini del cristianesimo, quando la celebrazione eucaristica avveniva nelle case in cui di volta in volta ci si ritrovava. Parlandone con i ragazzi all’università, si sparge la voce. E, fatto del tutto inatteso, qualcuno chiede di unirsi. Giovani che normalmente non frequentano la messa: eppure, in un’atmosfera che sa di casa, nella semplicità, nel desiderio di interiorità ma anche di relazioni nuove, ci si lascia coinvolgere. È questa la Chiesa missionaria di cui, come all’inizio, anche oggi c’è bisogno: una comunità che puòsorgere nel passaparola, in cui si diventa invito l’uno per l’altro.
(L’artico completo sulla rivista Ekklesía)