Chiedo istruzioni ogni notte
L’epistolario, genere letterario che tanta fortuna ha conosciuto in passato, sembra oggi passato di moda, surclassato com’è dalle massicce ed effimere comunicazioni social che hanno contagiato perfino anziani giunti «sul passo estremo della più estrema età» nonché persone ritenute sorde alle sirene incantatrici digitali. Niente da eccepire riguardo alla loro utilità per trasmettere in tempi rapidi brevi messaggi… ma quanta zavorra anche, quanto tempo prezioso perso in banalità e vuote sentenze!
A questo punto avrete già capito il tipo che sono io. Proprio per questo, imbattermi in un epistolario che tramite messaggi email e WhatsApp si è dipanato dall’11 dicembre 2020 al 25 ottobre 2021 durante il lockdown per la pandemia non poteva che stimolare la mia curiosità. Il titolo, già di per sé invogliante: Chiedo istruzioni ogni notte. L’editrice: Rubbettino. Autori e destinatari delle lettere, due professionisti legati per diverse ragioni a questa editrice calabrese: la scrittrice Sonia Serazzi, che con la stessa ha pubblicato romanzi come Il cielo comincia dal basso, Non c’è niente a Simbari Crichi, … E le ortiche c’hanno ragione; e Antonio Cavallaro, che per Rubettino si occupa di comunicazione ed editoria religiosa oltre a collaborare con le pagine culturali del Quotidiano del Sud. Due amici che dalle conversazioni professionali si sono «ritrovati a parlare di vita, di morte e di Dio, ma per farlo – avverte la Serazzi anche a nome del coautore –, abbiamo scritto di nascosto, come fanno i bimbi con i disegni complessi, che sempre rischiano di svettare in qualche ambiziosa stortura. E proprio per fuggire il rischio di tratteggiare castelli interiori sbilenchi e cammini di perfezione mai battuti, ci siamo rassegnati a dire i nostri giorni con semplicità. Forse perché insieme speriamo in un Dio che abita in mezzo a noi, e che da sempre cuce pelle da aggiungere alla pelle di quelli che si scoprono nudi».
Attratto da questa premessa, mi sono lasciato catturare fino all’ultima lettera dagli sprazzi di luce che i due sono riusciti a scovare nella ferialità del quotidiano, andando a toccare, senza quasi parere, gli argomenti essenziali che danno senso alla vita. Mi resta soltanto da trascrivere, a mo’ di esempio, qualcosa di questo epistolario che parla di vite e di funerali, di amori fedeli e di monopattini, di soldati che si svegliano nel freddo e di spose modeste che stringono mazzi di foglie secche, ma anche di stelle di carta stagnola che si sforzano di essere comete per chi cerca l’Altissimo: il tutto, espressione di un’amicizia “nata in mezzo alla carta”.
Antonio: «Cara Sonia, la tua lettera riporta in un certo qual senso questa nostra conversazione al suo nucleo più vivo, ossia a quel cielo che comincia dal basso di cui hai scritto nel tuo libro, a quella fede fatta di cose piccole, minute, quotidiane. In un WhatsApp che mi hai mandato qualche giorno fa mi hai detto che “la fede è sempre feriale”, e subito ho pensato che gli eventi fondanti della nostra fede e della nostra identità cristiana si sono consumati in una quotidianità quasi banale. Pensa all’Annunciazione, il più grande mistero della storia della salvezza: Dio che si fa uomo nel grembo di una donna. Immagino che tutto si sia svolto nella penombra della casa di Nazareth, nel segreto di una stanza: nessuno si è accorto di nulla. Caravaggio nella sua Annunciazione raffigura Maria con ai piedi una cesta con della stoffa, forse intenta, prima dell’apparizione dell’Arcangelo, a rammendare qualche vestito o a ricamare. A fare quello che tutte le donne della sua età facevano ogni giorno. […] È talmente difficile da accettare la scarna ferialità del Cristianesimo, la sacralità dell’ordinario, che nei secoli abbiamo voluto trasformare e arricchire ciò che ci appariva povero e semplice».
Sonia: «… Dopo la morte di mamma ho guardato per mesi il cartello col punto esclamativo che era stato un comandamento per me e per i miei genitori [durante il Covid-19: RESTARE VIVI!]. Noi avevamo obbedito: papà suonava la pianola come alle feste, io pulivo la casa per Pasqua e mamma mi passava sorridendo il detersivo migliore da spruzzare sui vetri. A cena mangiavamo tutti pastina con l’olio per solidarietà col dolore allo stomaco di mia madre, che intanto prendeva delle pastiglie che parevano efficaci. A tarda sera papà consegnava a sua moglie l’unica sigaretta che le era concessa, poi gli sposini guardavano la televisione tenendosi per mano con pudore: dieci dita intrecciate simulavano il riposo sullo stesso bracciolo di poltrona, per non dare troppo nell’occhio. L’ambulanza l’ho chiamata io, ma mia madre non avrebbe voluto. Per cacciare in barella mamma dalla sua casa, gli infermieri hanno dovuto spostare dall’ingresso la statua del Sacro Cuore di Gesù. Da allora papà mette sempre un giglio, una margherita o un ciclamino davanti al Cristo di gesso. E quel gesto mi pare uno stabat pater che gli vale coma professione di fede. Restiamo vivi e con un fiore qualunque in mano, Antonio caro. È tutto quello che dobbiamo fare, un giorno dopo l’altro.
__