Chiara
La penna non sa quello che dovrà scrivere, il pennello non sa quello che dovrà dipingere e lo scalpello non sa ciò che dovrà scolpire. Quando Dio prende in mano una creatura per far sorgere nella Chiesa qualche sua opera, la persona scelta non sa quello che dovrà fare. È uno strumento. E questo, penso, può essere il caso mio.
Così Chiara dà la chiave di lettura di una storia mille volte raccontata, ricordata solitamente con il suo semplice incipit: Erano i tempi di guerra e tutto crollava…. La Seconda guerra mondiale in effetti infuriava, e sulla città di Trento si susseguivano violenti bombardamenti. Da quelle vicende iniziali è nato un movimento che ha le qualità proprie di un’opera di Dio: fecondità e diffusione sproporzionate a ogni forza o genio umano, croci, croci, ma anche frutti, frutti, abbondantissimi frutti. E gli strumenti di Dio in genere hanno una caratteristica: la piccolezza, la debolezza… Mentre lo strumento si muove nelle mani di Dio, egli lo forma con mille e mille accorgimenti dolorosi e gioiosi. Così lo rende sempre più atto al lavoro che deve svolgere. Finché, acquisita una profonda conoscenza di sé e una certa intuizione di Dio, può dire con competenza: io sono nulla, Dio è tutto. Quando l’avventura iniziò a Trento, io non avevo un programma, non sapevo nulla. L’idea del movimento era in Dio, il progetto in cielo.
Silvia, una ragazza felice Silvia, questo il nome di battesimo di Chiara, nasce a Trento il 22 gennaio 1920, seconda di quattro figli. Il padre, Luigi Lubich, commerciante di vini, ex tipografo antifascista e socialista, fu a suo tempo dapprima collega del Benito socialista, e poi irriducibile avversario politico del Mussolini fascista. La madre, Luigia, è animata da una forte fede tradizionale. Il fratello maggiore, Gino, dopo gli studi di medicina partecipa all’avventura della Resistenza nelle celebri Brigate Garibaldi, per poi dedicarsi al giornalismo, a L’Unità.
Un episodio dell’infanzia di Chiara, risalente al 1930, ci è raccontato da Igino Giordani: Un giorno che passava, con quel suo passo agile per cui la personcina sottile e graziosa slittava come una luce flessibile, velata da un vestitino povero, ma grazioso, quando fu in fondo a via del Torrione, tutto a un tratto si sentì invitata al martirio. Un invito netto, improvviso. Stupita, si arrestò, volse il visino in cielo e rispose: Sì.
A 18 anni, Silvia ottiene a pieni voti il diploma di maestra elementare. Avrebbe desiderato studiare, e per questo tenta di essere ammessa alla Cattolica. Invano: finisce trentaquattresima su trentatré posti di ammissione gratuita disponibili. Sì, perché a casa Lubich non ci sono soldi sufficienti per permetterle di continuare gli studi a pagamento in un’altra città. Silvia così è costretta a lavorare Dall’anno scolastico 1940-1941 insegna all’Opera serafica di Trento. Così Giordani descrive la maestra Silvia Lubich, in un passaggio che penetra bene la sua pedagogia: Entrando in aula, modesta, raccolta, senza por mente a chi faceva chiasso e monellerie, ella andava dritta alla cattedra: e via via che passava, calavano le voci, si faceva silenzio: entrava il sacro e lo avvertivano. E così parlava loro sottovoce e ogni cosa faceva con garbo, sì che le loro anime si conformavano a lei e si placavano: e la disciplina diveniva un effetto della riverenza, l’aura della convivenza con Dio, dove non si udiva una voce, se ella non la moveva… Ella sapeva farsi una con i bambini che iniziavano e una con gli adolescenti che sbocciavano… Ella applicava il metodo didattico di Gesù: si santificava per santificarli, amando ognuno come sé stesso.
Il punto di partenza decisivo della sua esperienza umano-divina si rivelerà, nel 1939, un viaggio: Sono invitata ad un convegno di studentesse cattoliche a Loreto – scrive Chiara -, dove è custodita secondo la tradizione, in una grande chiesa-fortezza, la casetta della Sacra famiglia di Nazareth… Seguo in un colle ge un corso con tutte le altre; ma, appena posso, corro lì. Mi inginocchio accanto al muro annerito dalle lampade. Qualcosa di nuovo e di divino m’avvolge, quasi mi schiaccia. Contemplo col pensiero la vita verginale dei tre: Dunque Maria avrà abitato qui – penso -. Giuseppe avrà attraversato la stanza da lì a lì. Gesù Bambino in mezzo a loro avrà conosciuto per anni questo luogo. I muri avranno riecheggiato la sua vocetta di infante…. Ogni pensiero mi pesa addosso, mi stringe il cuore, le lacrime cadono senza controllo. Ad ogni intervallo del corso, corro sempre lì. È l’ultimo giorno. La chiesa è gremita di giovani. Mi passa un pensiero chiaro, che mai si cancellerà: sarai seguita da una schiera di vergini.
Tornata dalle Marche nel Trentino, Chiara ritrova la sua scolaresca e il parroco che tanto l’aveva seguita in quei mesi. Questi, appena la vede raggiante, una ragazza veramente felice, le chiede se ha trovato la sua strada. La risposta di Chiara è apparentemente (per lui) deludente, perché la giovane donna sa dire solo quali sono le vocazioni che non avverte come sue, cioè quelle tradizionali: né convento, né matrimonio, né consacrazione nel mondo. Nulla di più. 7 dicembre Negli anni dalla visita a Loreto del 1939, e fino al 1943, Silvia continua a studiare, lavorare e impegnarsi al servizio della Chiesa. All’atto di farsi terziaria francescana, assume il nome di Chiara, la copia più bella del Poverello, come scrive Giordani.
Per tornare al 1943, Chiara, ormai ventitreenne, mentre si reca a prendere il latte a un paio di chilometri da casa, in località Madonna bianca, al posto delle sorelline che avevano declinato l’invito della mamma per il troppo freddo, avverte, proprio sotto un ponte della ferrovia, che Dio la chiama: Datti tutta a me. Chiara non perde tempo, e con una lettera chiede il permesso di compiere un atto di totale donazione a Dio, a un cappuccino sacerdote, padre Casimiro Bonetti. L’ottiene, dopo un colloquio approfondito. E il 7 dicembre 1943, alle 6 di mattino, si consacra. Quel giorno, Chiara non aveva in cuore nessuna intenzione di fondare qualcosa: semplicemente sposava Dio. E questo era tutto per lei. Solo più tardi si attribuì a quella data l’inizio simbolico del Movimento dei focolari. In ogni caso, come scrisse Chiara più tardi, in quel 7 dicembre 1943 la gioia interiore era inspiegabile, segreta, ma contagiosa.
Contagiosa, proprio così: nessun aggettivo sembra più adatto a indicare quel che succede nei pochi mesi successivi. Chiara si trova ad avvicinare delle giovani. Alcune di loro vogliono seguire la sua stessa strada: Natalia Dallapiccola dapprima, poi Doriana Zamboni e Giosi Guella; quindi Graziella De Luca e le due sorelle Gisella e Ginetta Calliari, Bruna To- masi e Aletta Salizzoni; un’altra coppia di sorelle, le Ronchetti, Valeria e Angelella… E tutto ciò accade nonostante la strada del focolare sia tutt’altro che definita, fatto salvo il radicalismo evangelico assoluto di Chiara. In quei mesi la guerra infuria anche a Trento. Rovine, macerie, morti. Chiara e le sue nuove compagne prendono l’abitudine di ritrovarsi nei rifugi antiaerei a ogni bombardamento. È troppo forte il desiderio di stare insieme, di scoprire sempre nuovi modi di essere cristiani, di mettere in pratica il Vangelo, dopo quella folgorante intuizione che le aveva portate a mettere Dio amore al centro della loro giovane vita. Ogni avvenimento ci toccava profondamente – dirà più tardi Chiara -. La lezione che Dio ci offriva attraverso le circostanze era chiara: tutto è vanità delle vanità, tutto passa. Ma, contemporaneamente, Dio metteva nel mio cuore, per tutte, una domanda, e con essa la risposta: Ma ci sarà un ideale che non muore, che nessuna bomba può far crollare e a cui dare tutte noi stesse?. Sì, Dio. Decidemmo di far di lui l’ideale della nostra vita.
È la primavera del 1944, Chiara sta spiegando a Doriana – a cui da tempo dà lezioni private – il pensiero di Kant. Il suo metodo era quello di amare ogni pensatore – puntualizza la stessa Doriana -. Amare gli uni e gli altri e quindi capirli, comprenderli, seguire il loro ragionamento. Eravamo dunque arrivate a Kant, letteralmente entusiasmate dalle sue idee… Ma lo studio ci stava portando fuori da quella realtà divina che stavamo scoprendo mettendo in pratica il Vangelo. Allora disse: Fermiamoci, recitiamo il Credo. Il sistema kantiano non sbocca nella vita eterna. Chiara cominciò allora a parlarmi della risurrezione della carne e della vita eterna. E, insieme, abbiamo avuto l’impressione che un raggio di luce scendesse dal quadro del Sacro Cuore che stava appeso alla parete. Più tardi quell’intensa luce viene chiamata ideale.
Nel mese di maggio, nella cantina oscura della casa di Natalia Dallapiccola, al lume di candela le ragazze di Trento leggono il Vangelo, come ormai è loro abitudine. Lo aprono a caso, e capitano sulla preghiera di Gesù prima di morire: Padre, che tutti siano una cosa sola (Gv 17, 21). È un testo evangelico straordinario e complesso, il testamento di Gesù, studiato dagli esegeti e dai teologi di tutta la cristianità; ma in quell’epoca un po’ dimenticato, perché misterioso ai più. E poi la parola unità è entrata nel vocabolario dei comunisti, che in certo senso ne reclamano il monopolio. Ma quelle parole sembrarono illuminarsi ad una ad una – scriverà Chiara -, e ci misero in cuore la convinzione che per quella pagina del Vangelo eravamo nate. Più tardi, nel Natale 1946, viene scelto dalle ragazze come motto: O l’unità o la morte. Un giorno un sacerdote chiede: Sapete qual è stato il più grande dolore di Gesù?. Secondo la mentalità comune dei cristiani di allora, le ragazze rispondono: Quello patito nell’orto degli ulivi. Ma il sacerdote replica: No, Gesù ha sofferto di più quando in croce ha gridato: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? . Impressionata profondamente da quelle parole, appena rimaste sole, Chiara dice alla sua compagna: Abbiamo una vita sola, spendiamola meglio che possiamo! Se il più grande dolore di Gesù è stato l’abbandono da parte del Padre suo, noi seguiremo Gesù abbandonato. Da quel momento per Chiara lui sarà lo sposo, unico, della vita.
Il conflitto nel frattempo non lascia tregua. Le famiglie delle ragazze sono in gran parte sfollate nelle valli di montagna. Ma esse hanno deciso di rimanere a Trento: chi obbligata dal lavoro o dallo studio, chi, come Chiara, per non abbandonare le tante persone che cominciano ad aggregarsi. Chiara prende alloggio presso una conoscente, di nome Carmela, finché, nel settembre successivo, trova un tetto al numero 2 di piazza Cappuccini, periferia di Trento, dove lei e alcune delle sue nuove amiche – dapprima Natalia Dallapiccola, poi via via le altre – si trasferiscono. È il primo focolare: un modesto appartamento di due locali nello slargo alberato ai piedi della chiesa dei cappuccini: lo chiamano la casetta dell’amore, o, più semplicemente, la casetta. Le ragazze che vi abitano, ma anche le persone che girano attorno a esso, avvertono in quei mesi un balzo di qualità nella loro vita. Hanno l’impressione che Gesù realizzi fra loro la sua promessa: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18, 20). Non vogliono perderlo più, e tutto mettono in atto per evitare che la sua presenza svanisca per colpa loro. Più tardi, molto più tardi – preciserà Chiara -, si capirà: ecco una riproduzione, in germe e sui generis, della casetta di Nazareth: una convivenza di vergini (e ben presto anche di sposati) con Gesù in mezzo a loro. Ecco il focolare, quel luogo dove il fuoco dell’amore scalda i cuori e appaga le menti. Ma per averlo con noi – così Chiara spiega alle sue compagne – occorre esser pronte a dare la vita l’una per l’altra. Gesù è spiritualmente e pienamente presente fra noi se siamo unite così. Egli che ha detto: Siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda. In effetti, attorno a Chiara e alle ragazze del focolare si sussegue una serie impressionante di adesioni al progetto di unità che appare nuovo, benché appena abbozzato. E non mancano le conversioni, le più varie. Si salvano vocazioni in pericolo, e nuove ne sbocciano. Ben presto, infatti – ma verrebbe da dire quasi da subito -, anche ragazzi e adulti cominciano a seguire le ragazze del focolare. Ricorda Maria Tecilla, sorella del primo focolarino, Marco: Non è che ci fossero solo focolarini, la comunità era un tutt’uno. C’erano tante mamme di famiglia, persone che prima erano terziarie, anche vecchiette. Di quel periodo rimane memoria in particolare delle affollate e intense riunioni del sabato pomeriggio, alle 15, nella Sala Massaia. Lì Chiara racconta esperienze di Vangelo vissuto e annuncia le prime scoperte di quella che sarebbe diventata in seguito la spiritualità dell’unità.
Il fervore cresce a dismisura cosicché, già nel 1945, circa 500 persone – di tutte le età, uomini e donne, di ogni vocazione ed estrazione sociale – desiderano condividere l’ideale delle ragazze del focolare. Ogni cosa fra loro è in comune, così come accadeva nelle prime comunità cristiane. I confini della Terra Si legge nel Vangelo la frase: Date e vi sarà dato. Parole che si trasformano in esperienza quotidiana. Danno, danno sempre, le ragazze e i loro amici, danno ancora e ricevono, ricevono sempre, ricevono ancora. È rimasto un solo uovo in casa per tutte? Lo porgono a un povero che ha bussato alla porta. In quella stessa mattinata, qualcuno lascia sulla soglia di casa un sacchetto… di uova! È anche scritto: Chiedete e vi sarà dato. Chiedono così ogni cosa per le molte necessità, non tanto loro, quanto dei fratelli nel bisogno. E in piena guerra arrivano sacchi di farina, scatole di latte, barattoli di marmellata, fascine di legna, capi di vestiario. In focolare non di rado, con la tovaglia bella e i riguardi che si devono alle persone di riguardo, a tavola siedono una focolarina e un povero, una focolarina e un povero… Il giorno della festa di Cristo Re, Chiara e le sue compagne si ritrovano attorno all’altare dopo la messa. Si rivolgono a Gesù con la semplicità di chi ha capito cosa voglia dire essere figli. E lo pregano: Tu sai come si possa realizzare l’unità, l’ut omnes unum sint. Eccoci qui. Se vuoi, usa di noi. La liturgia del giorno le affascina: Chiedi a me – recita il salmo – e ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della Terra. E così, nella loro semplicità tutta evangelica, chiedono niente meno che gli ultimi confini della Terra: per loro Dio è onnipotente. Il comportamento delle ragazze della casetta sbalordisce chi le incontra.
A proposito della radicalità del focolare, si ricorda un episodio significativo a guerra ancora in corso. Gino, fratello di Chiara, e un collega medico, entrambi comunisti, si recano a trovare Chiara, malata, a piazza Cappuccini. Da Duccia Calderari, un’infermiera che lavora nell’ospedale dove i due prestavano servizio, l’amico ha saputo qualcosa dell’opera delle focolarine, in particolare della loro comunione di beni. Vuole perciò esprimere la sua ammirazione. Chiede: Chi ve l’ha fatto fare?. Chiara, per tutta risposta, indica il crocifisso. Essi chinano il capo. Poi il medico aggiunge: Quello che voi avete fatto tra poche persone noi lo stiamo preparando in tutto il mondo. Noi siamo poche, pope (che in dialetto trentino vuol dire bambine) e povere: vedremo chi arriverà prima, replica Chiara, lanciando loro la sfida.
Tutto ciò non poteva lasciare indifferente la città, allora di poche decine di migliaia di abitanti, né tanto meno la Chiesa tridentina. Una parola del Vangelo aveva già toccato Chiara e le sue compagne: Chi ascolta voi ascolta me. Chi ascolta il vescovo – ne avevano dedotto -, ascolta Cristo. Proprio in quel periodo, il vescovo le manda a chiamare, e Chiara è in pensiero non sapendone il motivo. Si presentano nell’imponente edificio del vescovado, in piazza Fiera, ed espongono quello che stanno realizzando nella città, una vera rivoluzione che cresce nelle loro mani, quasi senza che se ne rendano conto. Sono tuttavia pronte, per loro esplicita ammissione, anche a distruggere tutto quanto si è costruito in quei mesi intensi, se egli l’avesse solo desiderato. Nel vescovo – pensano -, è Dio che parla. E Dio solo importa loro, null’altro. Mons. Carlo De Ferrari in quell’occasione ascolta Chiara e le sue prime compagne, sorride loro, e pronuncia semplicemente una frase che rimarrà negli annali: Qui c’è il dito di Dio. La sua approvazione e la sua benedizione accompagneranno il movimento fino alla sua morte. Da quel momento, quasi impercettibilmente, si varcano le frontiere della regione, invitati a Milano, a Roma, in Sicilia. E fioriscono ovunque comunità cristiane sul tipo di quella sorta a Trento. Si andrà lontano. In questo contesto, irrompe nel gruppo una figura inattesa: Giordani. Egli spalanca, se così si può dire, porte e finestre dell’appartamentino di piazza Cappuccini sul mondo intero, evidenziando la grandezza del carisma, la sua valenza universale. Il nascente movimento non è destinato solo al mondo religioso, ai cattolici, ma è un dono per l’umanità intera. Giordani infonde la certezza che la nascente spiritualità nasconde una vera rivoluzione teologica e sociale, fatta soprattutto per i laici, compresi gli sposati. Una rivoluzione anche nell’ambito del pensiero.
Nell’estate del ’49 Giordani raggiunge Chiara che si è recata per un periodo di riposo nella valle di Primiero, a Tonadico, sulle montagne del Trentino. Insieme alla comunità vivono intensamente il passaggio del Vangelo sull’abbandono di Gesù. Il 12 luglio Chiara scrive: Gesù abbandonato! L’importante è che quando passa, noi stiamo attenti a sentire quello che ci vuole dire, perché ha sempre cose nuove da dirci. Gesù abbandonato ci vuole perfetti: è l’unico maestro Gesù ed egli si serve di tutte le circostanze per plasmarci, per smussare gli angoletti del nostro carattere, per santificarci. L’unica cosa che dobbiamo fare è prendere tutte queste voci delle circostanze come voce sua. Tutto ciò che succede attorno a me succede per me, è tutt’un’espressione corale dell’amore di Dio a me. Quattro giorni dopo, il 16 luglio, comincia il periodo conosciuto come Paradiso 1949. Chiara scrive: Ci si sforzava in pratica di vivere il nulla di noi perché egli vivesse in noi. Su questo nulla, alla santa Comunione, amata e riscoperta come vincolo d’unità, Igino Giordani ed io abbiamo chiesto a Gesù di unire, come lui sapeva, le nostre anime. E si è sperimentato – per una grazia speciale – cosa significava essere una cellula viva del Corpo mistico di Cristo: era essere Gesù e come tali in seno al Padre. E Abbà, Padre è fiorito sulle nostre labbra. Così è iniziato un periodo luminoso, particolare, in cui, fra il resto, ci è sembrato che Dio volesse farci intuire qualche suo disegno sul nostro movimento. Abbiamo capito meglio anche molte verità della fede, e in particolare chi era per gli uomini e per il creato Gesù abbandonato, che tutto aveva ricapitolato in sé. L’esperienza è stata così forte da farci pensare che la vita sarebbe stata sempre così: luce e Cielo. La realtà, invece, che ne è seguita, è stata quella di ogni giorno. Nel brusco risveglio di ritrovarci – per così dire – in terra, uno solo ci ha dato la forza di vivere ancora. Su un foglio di carta intestato della Camera dei deputati, prestatole da Giordani, Chiara scrive allora di getto quel capolavoro che inizia con un verso ormai celebre: Ho un solo sposo sulla terra, Gesù abbandonato (vedi pp. 72-73). La discesa da quel piccolo Tabor marca l’annuncio definitivo che l’Abbandonato è la via all’unità: Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita, era scritto in quel foglietto. Non erano parole. Nel 1959, allorché alcuni focolarini tenteranno di passare con alterna fortuna nella Germania comunista, oltre la cortina di ferro, qualcuno chiederà a bruciapelo a Chiara perché mai il movimento volesse espandersi in quell’angolo allora buio d’Europa, in cui sembrava impossibile svolgere qualsiasi evangelizzazione. Risposta fulminante: Perché amiamo Gesù abbandonato.
Già ai tempi di Trento, ancora negli anni Quaranta, il movimento aveva suscitato degli interrogativi nel mondo cattolico per la sua originalità. Ma è soprattutto a partire dal momento in cui i Focolari cominciano a diffondersi nel resto dell’Italia, negli anni Cinquanta, che la Chiesa di Roma e i vescovi italiani mettono sotto attento studio il movimento nascente che esce dai canoni tradizionali delle associazioni laicali e suscita quindi, per la sua novità, non poche preoccupazioni pastorali e dottrinali in alcuni presuli. Inizia così un periodo paradossale, durato una quindicina di anni: da una parte la Chiesa di Roma, e in modo particolare i vescovi italiani, esprimono la necessità di uno studio approfondito della nascente realtà; dall’altra coloro che seguono il carisma dell’unità prendono sempre più coscienza di essere Chiesa, e danno spontaneamente il via a una diffusione che, a distanza di qualche decennio, non può certo essere spiegata con i normali parametri apostolici. La luce nata dall’estate del 1949 era troppo forte per non irradiare. A Pistoia, Pasquale Foresi, che sarà – come Chiara dice – uno dei confondatori del movimento, conosce l’ideale dell’unità, mentre il movimento si incontra con le realtà più dolorose della società, come il vivissimo problema comunista (il fratello di Chiara e alcuni tra i primi focolarini venivano proprio da ambienti marxisti), o il difficile dopoguerra italiano (De Gasperi entra in contatto con Chiara), o, ancora, la presa di coscienza dello scandalo della divisione dei cristiani (il card. Bea e Giordani sono antesignani dell’ecumenismo nella Chiesa cattolica). In quegli anni il movimento varca le frontiere verso Nord, espandendosi rapidamente in tutte, o quasi, le nazioni europee. Infine, dal 1958 al 1967, arriva nei cinque continenti.
Dopo qualche anno dall’inizio del movimento cominciano le prove, com’è nella logica divina delle cose. Pesanti prove interiori, con lunghe notti per qualcuno, ma soprattutto la sospensione e l’insicurezza per lo studio lungo e approfondito della Chiesa. Scrive Chiara: Noi lo sappiamo: la vita si paga; la vita, che attraverso di noi arriva a tante anime, si produce con la morte. Solo passando per il gelo si arriva all’incendio. E ancora: Un pensiero soprattutto non mi abbandonava mai. Esso era frutto di una dolorosissima prova interiore, che in quel periodo era più che mai accesa: avevo capito chi ero io e chi era lui. Egli Tutto. Io nulla. Egli la fortezza. Io la debolezza. Ed era proprio questa mia debolezza costatata, che mi convinceva che quei frutti che portavamo, quelle migliaia di conversioni, non potevano essere effetto che di un’Opera di Dio. Chiara paragona questo periodo ad un susseguirsi di dolori, simili a quelli che precedono la nascita di una creatura, echi parziali del grido di Gesù. Quei dolori avevano sempre un unico motivo di fondo: il timore per lo scioglimento dell’Opera… Gesù, nell’abbandono, non era disperato. Gesù non poteva perdere la speranza. Il suo grido, qualcuno dice, è stato un lamento. E lamento abbiamo intitolato queste poche righe…: Siamo stanchi, Signore, siamo stanchi sotto la croce, e a ogni piccola croce ci sembra impossibile portare le più grandi. Siamo stanchi Signore, siamo stanchi sotto la croce, e il pianto ci prende la gola e beviamo lacrime amare. Siamo stanchi, Signore, siamo stanchi sotto la croce. Affretta l’ora dell’arrivo, ché qui per noi non c’è più stazione di gioia, non c’è che desolazione. Perché il bene che amiamo è tutto di là, mentre qua siamo stanchi, troppo stanchi, sotto la croce. La Vergine è accanto, bella, eppur mesta creatura. Aiuti nella sua solitudine la nostra, di ora.
La tanto agognata approvazione della Chiesa cattolica arriva il 23 marzo 1962, in contemporanea con l’arrivo dello spirito dell’unità nei continenti più lontani. Così Chiara commenterà quel periodo, alcuni anni più tardi: Lo studio durò a lungo. Nella sua esperienza e sapienza di secoli, la Chiesa studiò paternamente la nuova realtà ecclesiale da poco nata. Mai Chiara ripiegò di un millimetro dalla sua assoluta fiducia nella Chiesa e più volte arrivò a confidare ai più intimi che, se si fosse arrivati a uno scioglimento del movimento, avrebbero tutti obbedito alla decisione. Da questo momento in poi, ancora più di prima, la storia di Chiara si confonde con quella del movimento da lei fondato che continua a svilupparsi secondo un preciso disegno di Dio, non solo in senso geografico. Cominciano a prendere forma, infatti, varie vocazioni, diverse tra loro ma accomunate dalla comune radicalità. Nel 1956, anno marcato dai fatti d’Ungheria – la rivolta popolare soffocata nel sangue dall’invasione sovietica -, accanto ai focolarini fioriscono i volontari di Dio, come aveva auspicato Pio XII. Contemporaneamente si annunciano altri movimenti – per giovani, famiglie, per l’impegno sociale o parrocchiale, e altri ancora -, che spiccheranno il volo negli anni immediatamente seguenti. Nel 1961 inizia anche la penetrazione dello spirito del movimento tra i fratelli cristiani non cattolici. Che fosse Dio a operare, lo dice il fatto che, interrogata nel 1950 da padre Boyer, Chiara aveva escluso che il movimento fosse di natura ecumenica. Ma Dio m’attendeva al varco, dirà più tardi.
Nel frattempo, dopo la prima approvazione giunta dal Vaticano a firma di Giovanni XXIII, con Paolo VI arrivano le prime udienze e le ulteriori approvazioni. Nel 1967 in tutto il mondo appare la seconda generazione del movimento. A ruota, nascono anche la terza e la quarta generazione. Sono gli anni delle batterie e delle chitarre, del Gen Rosso, del Gen Verde e dei tanti complessi musicali dei giovani dei Focolari. Fino alla prima uscita a vita pubblica che avviene nel maggio del 1975 quando 25mila giovani gremiscono in ogni ordine di posti il Palazzo dello sport di Roma, l’arena dei concerti rock e delle manifestazioni politiche. Ma è anche il periodo di un profondo impegno sociale. Attorno alle varie vocazioni sorte nel movimento, quasi per una impossibilità genetica di rinchiudersi a formare solo un gruppo caloroso di bravi cristiani, nascono in quegli anni alcune diramazioni a largo raggio. Attorno ai focolarini sposati si forma Famiglie Nuove; attorno ai volontari, Umanità Nuova; attorno ai sacerdoti diocesani, un movimento sacerdotale; attorno a giovani chiamati al sacerdozio, una nuova generazione sacerdotale; ad opera di parroci, si sviluppa un movimento parrocchiale…Anche in campo ecumenico l’accelerazione è notevole. Il 13 giugno 1967 ha inizio lo straordinario rapporto che unirà Chiara e il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Athenagoras I, monumento d’amore, saggezza e lungimiranza, una delle più grandi personalità del secolo ventesimo, che pure voleva essere – e lo ripeterà in più occasioni – un semplice focolarino . Scrive Chiara: Ho imparato da lui ad amare tutti i popoli, a trovare il bene in tutti. Non aveva mai una parola di biasimo per nessuno. Era veramente grande Athenagoras, e non lo potrò mai dimenticare. È stato lui che ci ha rivelato la bellezza della Chiesa ortodossa. Da lui abbiamo capito come nell’Oriente viene sottolineata la vita, cioè il tradurre la verità in vita, e come viene esaltato l’amore. In campo culturale l’effervescenza non manca. La rivista Ecclesia – attorno a don Foresi – comincia a formulare teologicamente i punti della spiritualità dell’unità più innovativi. Si moltiplicano le riviste di formazione, e vede la luce un primo centro studi. Complessivamente, anticipando la globalizzazione di fine millennio, il movimento si presenta come un soggetto sociale ed ecclesiale naturalmente internazionale, multiculturale, multietnico e multirazziale.
Nel 1976, a Rocca di Papa, ha luogo il primo incontro di vescovi amici, attorno a mons. Klaus Hemmerle, vescovo di Aachen. L’anno successivo Chiara, ricevendo a Londra il premio Templeton per il progresso della religione, dà inizio ufficialmente al dialogo interreligioso del movimento. L’Opera comunque continua ad essere sconosciuta ai più, a rimanere quindi relativamente al riparo, se si escludono alcuni appuntamenti più visibili dei giovani. Una dopo l’altra, nascono nuove opere sociali nel mondo intero; le cittadelle, a partire da Loppiano in Toscana, si ampliano e acquistano nuovi abitanti; nasce una solida rivista per la promozione della cultura dell’unità, Nuova umanità. Nel 1982 7mila sacerdoti e religiosi del movimento, nell’aula Paolo VI, partecipano ad una storica concelebrazione eucaristica presieduta da Giovanni Paolo II che, nell’agosto di due anni dopo, visita il centro dei Focolari, a Rocca di Papa. Sui suoi rapporti con i papi Chiara scrive: Mi succede a volte che io faccio, ad esempio, in un’udienza, una grande unità col papa, così, come figliola, ed ecco che ho l’impressione che il cielo si apra e che io sia collegata con Dio, in grande unione, senza intermediari; sento una unione con Dio densissima. Ciò che la caratterizza è proprio questo fatto: senza intermediari, un’unione con Dio senza intermediari. In questo periodo si tiene il primo incontro di vescovi amici dei Focolari appartenenti a diverse Chiese e comunità ecclesiali, Chiara partecipa a tre sinodi, il primo dei quali nel 1985, per il ventesimo anniversario della chiusura del Vaticano II, e infine nel 1988 riceve il Premio per la pace augustana ad Augsburg, in Germania. Consolidamento e profondità, quindi, con una particolare formazione spirituale dei membri e aderenti dei Focolari, che si rivelerà necessaria per sostenere quanto nascerà negli anni Novanta e all’inizio del terzo millennio.
Nel 1990 il Pontificio consiglio per i laici approva gli statuti generali del movimento. Nello stesso anno, con la collaborazione di mons. Klaus Hemmerle, Chiara fonda la Scuola Abbà che, con la presenza di Gesù risorto fra i membri, effetto del loro amore a Gesù abbandonato rinnovato ogni volta con un patto, tenta di tradurre in dottrina, luminosa e sicura, la vita di comunione, la spiritualità dell’unità. Nel 1991, poi, in Brasile, la fondatrice e presidente dei Focolari dà l’avvio al progetto per una Economia di Comunione, che in breve tempo si espanderà nei cinque continenti, coinvolgendo numerosi imprenditori e imprese. Questi tre episodi, assieme ad altri avvenuti nello stesso periodo, testimoniano la penetrazione della spiritualità nelle più varie realtà umane. Una penetrazione in primo luogo spirituale, ma anche culturale, come confermano, tra l’altro, le sedici dottorati honoris causa attribuiti a Chiara dal 1996 al 2008. Senza poi parlare, tra gli altri, dei premi a lei attribuiti dall’Unesco per l’educazione alla pace nel 1996, e dal Consiglio d’Europa per i diritti umani nel 1998. Più di dodici sono state nello stesso periodo le cittadinanze onorarie attribuite a Chiara. In questi anni sorgono anche originalissime iniziative, in stretto legame con la Scuola Abbà: tentativi di applicare nei diversi ambiti professionali le intuizioni e le elaborazioni della dottrina che va scaturendo dal carisma dell’unità. Si aprono così nuovi orizzonti in teologia, filosofia, politica, economia, media, arte, psicologia, pedagogia, architettura e perfino sport, con un processo che, d’altronde, è in pieno sviluppo e che investe sempre nuovi campi. I numerosi viaggi europei e intercontinentali intrapresi da Chiara e ampiamente seguiti dai media locali e internazionali, manifestano in modo visibile la dimensione universale del carisma dell’unità. Dialogo a tutto campo Nel corso di questi suoi viaggi si evidenzia in modo particolare come l’azione del movimento si caratterizzi per lo sviluppo dei quattro dialoghi, quelli tipici della Chiesa. Il primo, che si attua all’interno delle singole Chiese, ha avuto una nuova partenza nella vigilia della Pentecoste del 1998, con l’intervento di Chiara e di altri fondatori in piazza San Pietro, gremita da più di 300 mila appartenenti a movimenti ecclesiali e nuove comunità: un potente soffio dello Spirito per la Chiesa che si apriva al terzo millennio. In campo ecumenico si ricordano tra l’altro la proposta formulata da Chiara di una spiritualità ecumenica all’assemblea di Graz e i suoi fruttuosi contatti col Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre al promettente dialogo tra movimenti di diverse Chiese avviato negli ultimi anni, in particolare in Germania, e sfociato nelle due edizioni di Insieme per l’Europa, a Stoccarda. Il campo del dialogo interreligioso è quello che con tutta probabilità più ha conosciuto sviluppi inattesi, con l’apertura operata da Chiara di relazioni costruttive e continuative con gli afroamericani dell’imam W.D. Mohammed, negli Usa (prima donna, bianca, cristiana, a parlare nella moschea di Malcolm X ad Harlem); con i buddhisti theravada di Chang Mai, in Thailandia; con cospicui gruppi di induisti in India, con il movimento buddhista Rissho Kosei-kai… Chiara stessa, nel 1994, è stata eletta presidente onorario della Wcrp, la Conferenza mondiale delle religioni per la pace; e, nel gennaio 2002, è stata scelta per parlare a nome della Chiesa cattolica, assieme ad Andrea Riccardi, nella grande riunione interreligiosa di Assisi promossa dal papa. Infine, il dialogo con persone di convinzioni non religiose. Dice Chiara agli amici, come lei li chiama: La nostra opera ha una vocazione universale. Perciò il nostro motto è: Che tutti siano uno. Ora, nel tutti ci siete dentro anche voi. Noi non possiamo fare a meno di voi… Saremo uno nei valori, in altre idee, in qualche cosa di concreto.
Una parola a parte meritano poi gli sviluppi della cittadella di Fontem, in Camerun, in cui si assiste – dopo una coloratissima visita di Chiara nel 2000 – a una vera e propria nuova evangelizzazione a scala di popolo, coniugata a un progetto di sviluppo sociale. E non possiamo non ricordare i germogli spuntati in un campo difficile come quello della tivù e del cinema. Ognuno di questi dialoghi nasce dalla capacità di Chiara di farsi uno con ogni realtà, tramite i rapporti personali da lei costruiti. Il sigillo a questo periodo è apposto dall’uscita della lettera apostolica Novo millennio ineunte, nel quale Giovanni Paolo II ha proposto alla Chiesa intera una spiritualità di comunione, con la quale la spiritualità dell’unità che il movimento da sempre attua si trova in singolare sintonia.
Nel 2003, in occasione del 60° anniversario del movimento, Chiara concede una breve intervista, percorsa da un pathos quasi insolito. Tale ricorrenza – risponde a una domanda del giornalista – mi getta in un silenzio adorante per lo stupore d’aver visto in questi decenni, sotto i miei occhi, nascere, crescere e svilupparsi un’opera di Dio che, da piccolo seme, è diventata – già la vedeva così Paolo VI – un grande albero che estende i suoi rami fino agli ultimi confini della Terra. Quindi l’intervistata aggiunge una lunga lista di ragioni che la portano a provare un intenso sentimento di riconoscenza per Dio, alle volte così forte da non nutrire altro sentimento. Una lista che è una lunga azione di grazie: Ringrazio per tutto e per sempre, per mille e mille motivi. Per avermi fatta nascere nella sua Chiesa e avermi scelta come suo strumento; per avermi fatta figlia di Dio e focolarina; per avermi nutrita di sé con l’Eucaristia, vincolo di unità; per la luce sovrabbondante del carisma dell’unità che mi ha donato, per me e per molti; per la famiglia spirituale che ne è nata; per avermi comunicato per prima il segreto dell’unità: Gesù abbandonato; per il centuplo in tutti i sensi che ho sperimentato; per la fede confermata; per avermi indicato l’amore come il bene supremo; per avermi dato una madre, Maria; per avermi fatta partecipe, almeno un po’, della sua universale maternità; per aver perdonato i miei peccati; per tutte le sofferenze che ha permesso; per avermi aperto il cuore su tutta l’umanità; per la vita carica di anni che mi ha dato, segno del suo amore. Per… per…. Ad una domanda sul futuro del movimento, la sua semplice risposta è: Non lo conosco. È scritto in Cielo. A noi interpretarlo e adempierlo, come abbiamo cercato di fare finora, con l’aiuto di Dio, e meglio ancora. L’ultima prova Gli ultimi tre anni dell’avventura terrena di Chiara Lubich sono i più difficili. Gesù abbandonato, lo Sposo suo, si presenta all’appuntamento in forma solenne . In un’oscurità in cui Dio appare tramontato come il sole dietro l’orizzonte. Eppure Chiara continua ad amare, momento per momento, fratello dopo fratello. Continua a servire il disegno di Dio sul movimento, seguendone gli sviluppi fino agli ultimi giorni, quando, con sua grande gioia, viene approvata dal Vaticano la nascente università Sophia. Uno solo è sempre stato e rimane il suo desiderio: Vorrei che l’Opera di Maria, alla fine dei tempi, quando, compatta, sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa ripetergli: Quel giorno, mio Dio, io verrò verso di te… con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le braccia. Padre, che tutti siano uno!.
Chiara si spegne il 14 marzo 2008 poco dopo le due del mattino. L’ultimo mese lo trascorre al Policlinico Gemelli, a Roma. Lì sbriga ancora la corrispondenza e prende decisioni importanti per il movimento. Riceve anche una lettera del papa che spesso rilegge, avendone un grande conforto. E il patriarca Bartolomeo passa a salutarla e benedirla. Negli ultimi giorni esprime ripetutamente il desiderio di tornare a casa. Viene accontentata. Saluta personalmente le sue prime compagne, i suoi primi compagni e i suoi più stretti collaboratori. Poi, mentre si aggrava, direi si consuma, centinaia e centinaia di persone giungono a casa sua ed entrano, ad una ad una, nella sua stanza, ore ed ore, per vederla, darle un bacio sulla mano, dirle ancora una sola parola: grazie. La commozione è grande, ma più grande la fede nell’amore. Si canta il Magnificat per le grandi cose che il Signore ha fatto in lei e si rinnova l’impegno a vivere il Vangelo, cioè ad amare, come Chiara ha sempre fatto e insegnato.