Chiara mite e forte

Mite è l’aggettivo che più ricorre nelle migliaia di ricordi di Chiara Lubich, che ha lasciato questa terra il 14 marzo 2008. Non a caso. Tutto il percorso della sua esistenza – che riassume il romanzo del XX secolo: guerre e persecuzioni, volontà e creatività, aperture e mondialità – è risultato un ripercorrere e rivivere il Vangelo dell’amore; non solo quello scritto da Giovanni, ma anche quello non scritto di Maria, la mite per eccellenza. Mite, cioè senza potere. Chiara e i suoi non hanno mirato e non mirano a occupare poltrone, a brigare mandati, a chiedere privilegi. Quali slogan possono essere più miti dei suoi: Ama il partito altrui come il tuo, ama la Chiesa altrui come la tua, ama il movimento altrui come il tuo? Il che non significa minimamente abdicare alla propria identità, cedere a sincretismi e irenismi. Mite, cioè disarmata, armata solo dell’amore. Resterà indelebile nella memoria il suo discorso nella moschea che fu di Malcolm X, ad Harlem, in cui parlò di cristianesimo senza remore. Ma citò pure il Corano, cogliendovi alcune convergenze con la sua integra fede: fragile, col capo coperto da un velo, stava dinanzi a una folla di aitanti afroamericani, tutti uomini. Li conquistò, e aprì una via di dialogo tutt’ora fruttosa. Ancora mite, cioè senza progetti e preconcetti. Nella sua biografia si ricordano i tanti inizi non previsti, come quello del dialogo tra cristiani: anni prima aveva affermato che i Focolari non avevano scopi ecumenici. O quello del 1956 quando, in risposta a un appello di Pio XII per i fatti d’Ungheria, diede inizio ai volontari di Dio. Si ricorda pure l’avvio di un progetto definito da tanti folle, una sorta di partenariato (medici e ospedali, operai e acquedotti, professori e licei…) con una tribù camerunese minacciata da una sicura estinzione: proprio lì nacque il capitolo del dialogo interculturale. Era il 1964. E nel 1991, colpita dalla corona di spine delle favelas che circondavano San Paolo in Brasile, fondò l’Economia di Comunione, che lo stesso card. Bertone ha ricordato nell’elogio funebre. Non pochi giornalisti e commentatori – forse quelli che più avevano approfondito la conoscenza di Chiara – hanno poi accostato a mite un secondo aggettivo: forte. A ragione, ci sembra. Il Vangelo è spesso paradossale, così come lo sono i suoi testimoni; così Chiara, nel corso della sua vita, ha mostrato una mite fortezza, o una forte mitezza. Una fortezza piantata sul buco della croce, quella del Golgota; o, meglio, radicata sul crocifisso appeso alla croce, scelto nel momento in cui non versa più il sangue del corpo ma quello dell’anima, il dolore più difficile da sopportare e nel contempo il più moderno: l’abbandono del Padre, tempo e luogo di riscatto per l’intera umanità. Luogo in cui l’unità – la sua onnipresente prospettiva -nasce, in cui la fraternità diventa patrimonio universale. Mio sposo, Chiara chiamava Gesù abbandonato: gli rimase fedele fino alla morte. Fedele, appunto. Ecco un’altra nota della fortezza di Chiara. Fedele alla sua chiamata, cioè all’Amore. Fedele al carisma che, dopo un lungo e doloroso periodo di studio, fu riconosciuto dai pontefici – da Pio XII a Benedetto XVI – e comprovato da frutti evangelici in tutto il mondo. Ma gli studiosi della dimensione carismatica sanno quanto la fedeltà del fondatore debba passare per notti di ogni genere: dei sensi, dello spirito e di Dio, quelle classiche. Chiara le passò tutte, ma ne enumerò un’altra, collettiva e culturale, quella di questa umanità che s’affaccia sul terzo millennio con enormi potenzialità ma col mare in tempesta. Forte, ancora, in Chiara Lubich era sinonimo di materna. L’enorme corrispondenza da lei coltivata nei decenni testimonia una attenzione personale per ognuno. Che fosse il presidente di una repubblica, una malata costretta in carrozzella o un bambino coi primi dubbi sulla vita, una parola di speranza non le è mai mancata. Materna lo è stata anche nelle ultime ore della vita, quando centinaia di persone hanno potuto darle l’ultimo saluto. Alla mamma. Alla madre che sempre aveva cercato di vivere quel che diceva, di distribuire quanto riceveva – fiori, soldi, quadri, torte… -, di rammendare da sola i suoi vestiti o riciclare i fogli di carta usati. Lei che non esitava a dare il suo cappotto al bisognoso. Che il funerale di Chiara Lubich si sia svolto a San Paolo fuori le mura, ha un suo simbolismo. È quella, infatti, una delle quattro basiliche pontificie romane; ma nel contempo è fuori le mura, pronta ad accogliere chi non è nella città. È perciò considerata la basilica ecumenica per eccellenza.Ma è pure dedicata al discepolo evangelizzatore e viaggiatore. Forse quella basilica svela così i paradossi evangelici di una donna trentina sempre al cuore della Chiesa, eppure alle sue frontiere, attratta com’è stata dall’umanità. Quella del suo Sposo.

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