Chiara Lubich, dal telefono ad Internet per collegare il mondo

Video, scritti, testimonianze per ricordare l'attenzione che la fondatrice del Movimento dei Focolari dava alla comunicazione e alla comunione fra le persone.

«È il diario di una testimone che ha usato i mezzi di comunicazione senza farsene usare». A parlare così è Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero della Comunicazione della Santa Sede, a proposito del libro Conversazioni. In collegamento telefonico di Chiara Lubich, presentato all’Università Pontificia Salesiana di Roma. L’opera, edita da Città Nuova e curata da Michele Vandeleene, è una raccolta di 300 messaggi che la fondatrice del Movimento dei Focolari ha trasmesso dai primi anni Ottanta al 2004.

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Nel volume si legge la profonda attenzione che Chiara Lubich aveva nei confronti dei mezzi di comunicazione globale allora agli albori, come strumenti per avvicinare le persone alla spiritualità. Non a caso, sempre Ruffini, ha osservato come la comunicazione della Lubich fosse originata da un desiderio di comunione. La stessa comunione a cui ha fatto riferimento papa Francesco recentemente parlando del tema scelto per la 54ª Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali che si terrà nel 2020.  «La vera comunicazione – ha detto il prefetto Ruffini – non è un lavoro d’ufficio, come ci ha ricordato papa Francesco. È recuperare l’unità spezzata dal peccato originale. La tentazione di fare affidamento solo su noi stessi è grande. È necessario lo Spirito Santo. Nel libro ci sono molti ammonimenti di questo genere. Tutti dovremmo riscoprire il modo di essere rete come quella dei primi cristiani. Una rete che libera, non che imprigiona. La tentazione dei nostri tempi è che si cerca di rendere tutti uguali e uniformi con l’ambizione di separarsi e farsi giudici, imporsi sul resto».

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Ai commenti, alle testimonianze e alle letture di brani, sono stati aggiunti spezzoni video di quelle conferenze al telefono che Chiara Lubich teneva a cadenza mensile dalla Svizzera (da cui il nome Collegamento CH). La voce di Chiara ha riscosso l’emozione della sala, delle tante persone presenti che l’hanno conosciuta. Fra queste, Giulia Paola Di Nicola, sociologa dell’Università Leonardo da Vinci di Chieti, che, nel suo intervento, ha ricordato il linguaggio semplice usato nei collegamenti: «Usava immagini, storie. Incisiva era la sua capacità di formulare brevi espressioni che passavano di bocca in bocca in una sorta di codice di riconoscimento.

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Con i collegamenti c’era la possibilità di rendere possibile l’impossibile, come oltrepassare lo spazio e le dogane, raggiungere persone diverse che erano invitate a lasciare i propri affari. Dava testimonianza della possibile unità – ha aggiunto – nel rispetto delle differenze, senza offendere nessuno anche su temi sensibili. I collegamenti straripavano dai gruppetti: si aprivano scenari di interesse ritenuti allora estranei, come l’economia e il denaro, considerato lo sterco del diavolo. Agli occhi di Chiara Lubich la spiritualità doveva unirsi a dei piedi ben piantati sulla terra.  Comunicava la sua anima libera di esporsi, ciò è stato – ed è – controcorrente alla cultura del sospetto».

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Della stessa opinione anche Cristiana Freni, docente di Filosofia del linguaggio dell’Università Pontificia Salesiana, che non ha nascosto di aver vissuto con intensa partecipazione la lettura dell’opera. «Dietro le parole semplici – ha affermato – si nascondono significati di una profondità abissale. L’essere collegati in Chiara significa instaurare legami metafisici con il nostro tu. Aprirsi alla difficoltà. Aprirsi verso l’altro, accettare il costo dell’esodo dalle gabbie dorate del nostro io e l’onere della comunicazione». La filosofa ha così sottolineato la capacità di quei collegamenti con il mondo nello sforzo di contribuire alla costruzione della comunità, nella quale «c’è la reciprocità delle anime che significa essere per l’altro».  A quella relazione fra anime, l’insegnamento della Lubich aggiunge la dimensione della “comunionalità”: «Partire dal tu – ha evidenziato Freni – per conoscerlo e farlo essere al meglio. Quell'”amore a fondo perduto”, come lo chiamava Chiara, per lasciarci morire per l’altro».

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