Chi può fermare Netanyahu?
La sottile striscia di terra libanese che dal 2006 a oggi ha evitato il peggio tra Israele e Hezbollah, presidiata dal contingente Onu dell’Unifil − la cui azione è iniziata nel 1978 e che oggi conta circa 10 mila unità, di cui 1250 italiane −, è quest’oggi ridotta a una pura espressione geografica, che l’esercito di Israele ha deciso di superare. La separazione tra israeliani e filoiraniani si reggeva in effetti per l’accordo tra le parti, e visto che Israele ha deciso di rompere quel trattato, il contingente Unifil ha deciso di non pattugliare più la strada che corre in territorio libanese, mimetica alla frontiera, e di ritirarsi nei suoi bunker in attesa degli sviluppi della vicenda bellica.
L’esperienza straordinaria dell’Unifil, nel 2006 rivitalizzata dall’allora presidente Romano Prodi, anche per un suggerimento del “politico in carrozzina”, il lucchese Massimo Toschi, è ora gravemente minacciata, se non moribonda, non perché non sia politicamente valida, ma perché l’organismo a cui risponde, le Nazioni Unite, non ha più né l’autorità né l’autorevolezza per imporre alcunché. Ne siano prova le ripetute dichiarazioni israeliane contro il suo segretario generale, il portoghese Antonio Guterres, dal 2017 al Palazzo di Vetro. Certamente, nell’ultima crisi di Gaza, gli organismi Onu presenti sul posto hanno commesso degli errori, forse favorendo talvolta il campo palestinese, ma gli attacchi israeliani all’organismo uscito dalla Seconda guerra mondiale per aiutare nella preservazione della pace, o perlomeno della non-belligeranza, non datano da ieri, ma già dagli anni ’70-’80 del secolo scorso. Il fatto, poi, che nessuno ormai invochi l’uso dei caschi blu dell’Onu nelle crisi attuali – Donbass e Gaza in testa – la dice lunga sulla gravissima crisi di credibilità dell’Onu.
Eppure, mai come in questi tempi si avverte ovunque la necessità di organismi internazionali efficaci, che possano rispondere alle sfide transnazionali emerse negli ultimi decenni. Pensiamo solamente alla pandemia del Covid, che dal 2020 al 2022 ha costretto i vari Paesi colpiti dalla diffusione del virus a prendere misure che in gran parte sono state semplici pannicelli caldi, che potevano poco dinanzi alla diffusione mondiale del virus, trasportato da territorio in territorio con meccanismi non “indigabili” da un solo Paese. È stata a tutti palese l’impotenza dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, in quel caso “presa in giro” soprattutto dalla Cina, ridotta com’era a semplice divulgatrice delle statistiche sulla diffusione del virus.
Un altro palese campo nel quale si avverte la necessità urgente di un’autorità internazionale, o piuttosto transnazionale, è quella del digitale: le tante infinite battaglie giudiziarie in corso tra le grandi imprese transnazionali – soprattutto statunitensi e cinesi – per il pagamento delle giuste tasse o per la regolazione dei mercati mostrano quanto poco potere decisionale e sanzionatorio sia nella facoltà dei singoli Stati, di fronte a società che mutano di continuo le loro sedi legali e che spostano i loro server nei Paesi che offrono maggiori vantaggi fiscali. E l’orizzonte dell’intelligenza artificiale non farà che acuire il problema della governance mondiale.
Accanto ai problemi sanitario e digitale, è evidente come l’attuale guerra mondiale giocata a diversi livelli e su diversi scenari geografici avrebbe bisogno estremo di un’autorità efficace, che possa limitare gli appetiti fuorilegge (rispetto al tanto vituperato e obsoleto diritto internazionale) e promuovere pace e non belligeranza. Certo, si è cercato di sostituire l’Onu con i vari “G” − 6, 7, 10, 12, 24… − ma con risultati francamente deludenti. Le stesse grandi potenze – Usa e Cina in testa – non riescono nemmeno a convincere i propri alleati alla moderazione, ad evitare fughe in avanti che limitino le conseguenze mondiali di certi atti bellici. Sì, tuonano contro il terrorismo, ma ormai sono gli Stati stessi a usare metodi terroristici per arrivare ai loro fini.
Fin qui le denunce sulla fine di un certo ordine mondiale. Nulla da fare, allora? Non mancano le ipotesi di una nuova governance inclusiva – si parla ad esempio di co-governance che tenga assieme Stati, società civile e settore privato −, ma la loro fattibilità non è comunque immediata. Il politico in carrozzina, Massimo Toschi, è morto nello scorso dicembre. Aveva avuto modo di seguire le prime fasi dell’ultima crisi tra israeliani e palestinesi, popoli che amava in sommo grado, ad esempio inventando un progetto, Saving Children, che ha permesso di salvare la vita a più di 10 mila bambini palestinesi curandoli in ospedali israeliani. Ebbene, Toschi, che aveva sempre nelle sue parole una certa dose di profezia, disse prima di morire: «Vedremo cose molto peggiori di queste». Non facciamo illusioni, la macchina politico-economica è ormai lanciata in modalità bellica. Gli uomini e le donne di buona volontà sono ormai impegnati nel lavorare per la pace che seguirà alla guerra presente.
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