Chi non passa alla storia, passa alla geografia
La riforma degli istituti superiori che prevede di ridurre le ore di geografia sta sollevando discussione e qualche preoccupazione. Soprattutto tra i geografi.
«Chi non passa alla storia, passa alla geografia». La battuta autoironica troneggia sulla maglietta di un collega geografo che provocatoriamente la indossa durante gli esami universitari. In questi giorni, infatti, la proposta avanzata dal ministro Gelmini di ridurre le ore di insegnamento della geografia nei nuovi curricula delle superiori ha suscitato reazioni soprattutto tra gli addetti ai lavori. Geografi, istituti geografici, associazioni legate alla salvaguardia del territorio e il Touring Club stanno reagendo con preoccupazione a un taglio che rischia di impoverire la formazione culturale dei ragazzi italiani.
Forse gli autori di questa proposta ritengono, come molti italiani, che la geografia si riduca a noiose e desuete mappe, a sbiaditi atlanti, a indecifrabili cartine stradali oggi soppiantate da più moderni strumenti di orientamento e di conoscenza del territorio. Un mondo che possiamo lasciare in soffitta, soppiantato da Google Earth, strumento meraviglioso che alimenta in noi la vertigine di essere ormai cittadini virtuali del mondo.
«Senza geografia siamo tutti più poveri – spiega Gino De Vecchis, presidente dell’Aiig, l’associazione italiana insegnanti di geografia – perché la formazione di un cittadino passa anche attraverso questa materia, che è la scienza dell’umanizzazione del pianeta Terra». Sì perché conoscere la geografia significa qualcosa di molto più ricco che ricordare le capitali europee, il nome dei fiumi, il numero di province di una certa regione. Informazioni che per altro non è neanche così dannoso conoscere. Geografia è arte di abitare il mondo, di attraversarlo con curiosità senza la necessità di andare da un punto all’altro, per mete prefissate, ma con il gusto dell’esplorazione, della scoperta, dell’incontro. L’amore per la geografia porta l’uomo ad osservare le relazioni tra ambiente naturale e uomo, tra la città e il suo territorio, tra il paesaggio e le culture, gli intrecci tra territori, città, confini, popoli, economie, latitudini e longitudini.
In un tempo nel quale i ragazzi viaggiano con facilità, si accostano a culture diverse, imparano le lingue, studiare le relazioni tra i popoli e la varietà dei contesti culturali e ambientali è un’opportunità che non dovrebbe andare perduta. Un’opportunità che forse andrebbe sempre più declinata al servizio della concordia e del dialogo tra i popoli, come spiega Andrea Olivero, portavoce del Forum Terzo Settore: «Studiare geografia non vuol dire orientarsi su una cartina alla ricerca dell’itinerario migliore: per fare ciò è probabilmente meglio utilizzare il gps. Ma nessun sistema satellitare fa conoscere i popoli o capire le motivazioni culturali, sociali, politiche o geofisiche che portano alle migrazioni, agli scontri tra etnie, alle guerre. Come comprendere le conseguenze del crollo del Muro senza saper collocare geograficamente Berlino? Confini e nazioni sono in costante mutazione: la geografia è dunque una materia viva, cui il nuovo ordinamento scolastico dovrebbe dedicare più ore anziché tagliarle».