“Chi non osa non raggiunge nulla”
Sofisticati rilievi tecnologici fissano oggi la quota dell’Everest a 8850 metri, due in più di quanto si sapeva allorché venne violata per la prima volta la sua cima. La differenza non può non far pensare alla statura degli uomini che cinquanta anni fa vi misero piede: la conquistarono non sarebbe verbo che si addice all’inscalfibile grandezza dell’Everest che immutabile continua ad attendere chi lo osa sfidare. Alcuni storici paragonano la conquista dell’Everest a quella dello spazio, eppure, per giungere sul tetto del mondo l’uomo ha impiegato molto più tempo di quanto sia servito per mettere piede sulla luna. Il primo avvistamento “di una vetta molto alta nel cuore dell’Himalaya”, registrata come Peak XV, da parte di topografi indiani, avvenne nel 1749. L’avventurosa storia della conquista dell’Everest comincia nel 1921 nel Darjeerling, in India. Fu da lì che partirono, nell’arco di 32 anni, varie spedizioni britanniche nel tentativo di dare l’assalto alla cima dalla Parete Nord. Nel ’52 furono però gli svizzeri a sfiorare la vetta, accompagnati da Tenzing Norgay, lo sherpa che un anno dopo avrebbe affiancato Hillary nell’attacco vincente. Dal maggio ’53, milleduecento uomini e donne di 63 paesi hanno raggiunto la vetta, mentre 175 hanno perso la vita in questo tentativo. E da allora molti record sono stati battuti (la prima attraversata, la prima invernale, la prima senza bombole d’ossigeno, la prima in solitaria, e così via), ma questa sequela di primati non cancella il valore dell’impresa di cinquant’anni fa, anche se Hillary ha sorprendentemente commentato così le attenzioni che gli sono rivolte ancora oggi che è tornato a fare l’apicoltore in Nuova Zelanda: “Da quel mattino sono stato considerato un grande temerario. In effetti, se guardo ai cinquant’anni trascorsi, arrivare in cima all’Everest mi sembra meno importante, in molti sensi, rispetto ad altre decisioni che ho preso nel corso del tempo, per migliorare la vita dei miei amici sherpa nel Nepal e proteggere la cultura e la bellezza dell’Himalaya “. Hillary non lasciò inascoltata la supplica rivoltagli nel 1960, al campo base dell’Everest, da uno sherpa: “Vorremmo che i nostri figli andassero a scuola, sahib”. E sahib, padrone Edmund, da quel giorno si è speso con tutte le forze a realizzare progetti in aiuto ai villaggi sherpa. Pochi mesi dopo venne inaugurata la prima scuola a Khumjung, nella valle dell’Everest. Da allora Hillary ha girato il mondo, sfruttando la sua fama per raccogliere soldi, devoluti, su richiesta degli sherpa, alla costruzione, finora, di 27 scuole, due ospedali ed una dozzina di cliniche, oltre ad un numero imprecisato di piccoli acquedotti e ponti per attraversare i fiumi impetuosi del Khumbu. Grazie alla “Himalayan Trust”, una fondazione attiva ancora oggi, sono stati inoltre ristrutturati monasteri e ripiantati migliaia di alberi per rimpiazzare quelli abbattuti per costruire gli alberghetti sorti con lo sviluppo del turismo. “Mi hanno insegnato che, avendone la possibilità, bisogna aiutare chi sta peggio – ha commentato Hillary più volte – e mi è davvero piaciuto rimboccarmi le maniche”. E fu proprio per andarlo a trovare, mentre costruiva un ospedale in Himalaya, che, in un incidente aereo, persero la vita la moglie Louise e la terza figlioletta Belinda. Hillary curò personalmente la realizzazione della pista del piccolo aeroporto di Lukla, l’evento che ha spalancato le porte al turismo himalayano, con un tetto di 25.292 visitatori nel 2000, e che porta ora denaro ai 10mila abitanti della regione, ma che sottomette ai contraccolpi del mercato, come quello successivo all’11 di settembre, questa popolazione che fino a pochi anni fa si guadagnava da vivere pascolando gli yak e coltivando patate, senza che li toccasse ciò che accadeva nel resto del mondo. La grande contaminazione della regione era del resto già cominciata nel 1865, quando il monte Sagarmatha fu battezzato Everest in onore del gallese sir George Everest, sovrintendente generale del Servizio trigonometrico indiano. Oggi i ragazzi del Khumbu fuggono a Katmandu a studiare e lavorare e pochi tornano nella regione “in cui tutti si va solo a piedi” e dove ancora sopravvive la semplice, ma profonda religiosità che animava Tenzing Norgay: “Ho scalato il monte – raccontò -, come un bimbo sale in grembo alla mamma”. Al campo base dell’Everest gli sherpa invitano i clienti a propiziarsi le divinità del monte, considerato sacro, offrendo riso ed incenso. I figli di Hillary e di Tenzing hanno ripetuto insieme, nel 2002, l’impresa dei loro padri comprendendone lo straordinario valore: “Meglio avvicinarsi con rispetto e umiltà – ha scritto Jamlin Norgay -: all’essere umano è concessa una sola udienza con la sommità dell’Everest, ed è comunque un evento raro e di breve durata”. Oggi Hillary, 83 anni, non può più salire alle quote del Khumbu a salutare i suoi amici sherpa, ma il suo affetto è immutato. “Ricordo come fosse ieri, il giorno felice in cui inaugurammo la scuola di Khumjung, con 47 bambini sherpa dalle guance rosse ed i sorrisi pieni di luce e di speranze. Oggi uno di loro è pilota di Boeing 767 ed altri sono importanti uomini d’affari e dirigenti. Ecco: sono questi i traguardi della mia vita che mi riempiono di orgoglio”.