Chi li salva dalla pubblicità?

Il miraggio consumistico orienta i comportamenti dei nostri figli. Come educarli alla vera libertà?

Sveglia alle 7. Accendere la tv alle 7 e 10 è la soluzione più comoda. A quell’ora sulle televisioni generaliste italiane ci sono due canali nazionali, Raidue e Italia 1 che trasmettono cartoni fino alle 9, fino a quando, cioè, è certo che tutti i bambini saranno andati a scuola. Mentre la tv sostituisce la baby-sitter e tiene a bada i bambini, i genitori sono liberi di preparare la colazione e fare la doccia.

In media, infatti, i nostri figli hanno già visto mezz’ora di televisione prima di entrare in classe. Ma chi ha acceso la tv o gliel’ha permesso?

I bambini italiani, ci dicono le statistiche, guardano tre ore di tv ogni giorno. In un anno sono così inondati da 31.500 spot a testa, 90 al giorno. A 10 anni hanno già memorizzato dalle 300 alle 400 marche. Decisamente troppo, anche se la pubblicità è uno dei mezzi di comunicazione di cui non si può fare a meno per la lettura del mondo in cui viviamo. L’evoluzione interessante è che, ormai, la pubblicità non vende e descrive più un prodotto da comprare ma propone un “mondo possibile” ricco di valori, dove il bambino può identificarsi. L’effetto collaterale è acquistare quella determinata marca per appartenere al sistema culturale proposto. Che fare educare i bambini alla bellezza della vita, invece che al consumo? Ne parliamo con Paolo Landi, direttore della pubblicità della Benetton, e autore dell’ottimo libro La pubblicità non è una cosa da bambini, dell’editrice La Scuola.

 

Perché è convinto che non si possano spiegare i meccanismi della pubblicità ad un bambino?

«I media, compresa la pubblicità, sono più forti dei bambini. Spiegarli a un bambino vuol dire cadere nel loro trabocchetto preferito: l’autoreferenzialità. La tv, i giornali, la pubblicità vogliono che si parli continuamente di loro, per spiegare ciò che dicono, per criticare quel che fanno, per smontare i loro meccanismi. Allontanare i bambini dai media è allora un importante primo passo. I bambini sono interessati a un ambito molto circoscritto della loro esperienza, sono interessati a quel che accade nelle loro immediate vicinanze e non capiscono l’astrattezza dei messaggi e delle immagini della pubblicità. Non li capiscono ma li subiscono. E questo è il pericolo maggiore».

 

Qual è il messaggio più subdolo che veicola la pubblicità sui bambini?

«Che si è nati per comprare. Non sono i singoli messaggi della pubblicità ad essere dannosi, piuttosto l’idea che noi siamo quello che consumiamo, lo zainetto che abbiamo, le scarpe che indossiamo, se abbiamo la playstation o il telefonino. Un adulto ha molte difese, un bambino no».

 

Quali valori e stili di vita crea la pubblicità in un bambino?

«La pubblicità non dovrebbe interessare a un bambino. Un bambino non deve conoscere a quattro anni il valore del denaro, non deve, come succede oggi, chiamare le cose con i nomi delle marche: Barbie, una bambola, Big Mac, un panino. Un bambino va lasciato stare, deve crescere in pace senza sentirsi ossessionato dalle merci».

 

Quant’è deleterio identificare la felicità con il possesso di merci?

«È deleterio perché è una felicità paradossale. Ti sembra di essere felice se possiedi una cosa ma, appena la possiedi, ti accorgi che non ti basta e ne vuoi un’altra, senza fine».

 

Lei vuole convincere maestri, educatori e genitori a tener lontani, per quanto possibile, i bambini dalla pubblicità. I bambini – scrive – devono restare nelle caverne. Ma non siamo mica più nell’età della pietra?

«Ho usato quella metafora delle caverne proprio perché oggi c’è un grande malinteso sulla modernità. A mio avviso è più moderno un bambino che gioca a mosca cieca di uno a cui pendono auricolari dalle orecchie, con la playstation portatile in mano e il telefonino in tasca. Ma su questa pseudo-modernità tecnologica molte imprese fanno profitti, sul gioco libero nessuno ci guadagna. Ci guadagna il bambino però, che impara a relazionarsi ai compagni di gioco, che fa esperienze dirette, non mediate da uno schermo».

 

Qual è il ruolo di mediazione dei genitori? Non si può spiegare una pubblicità come si interpreta una favola che si legge insieme?

«Io dico sempre che ogni minuto impiegato a spiegare un messaggio pubblicitario o uno spettacolo televisivo è un minuto sottratto a spiegare qualcos’altro. Qualcuno ci dice che dobbiamo parlare con i nostri figli di pubblicità e del Grande Fratello. Io invece vorrei parlare con i miei figli semplicemente di quel che hanno fatto a scuola».

 

Si può evitare la tv, ma non si può evitare la pubblicità dei cartelloni, dei videogiochi, dell’emulazione con i compagni di classe…

«Non si può evitare ma si può sorvolare su di essa. Dimostrare con i fatti che le cose che interessano a noi sono altre. Non c’è proprio niente di male nella pubblicità che spesso è anche molto più bella dei programmi che passa la tv. Ma non è una cosa da bambini. Il denaro, le merci sono cose da grandi. C’è un età per ogni cosa, basta aspettare».

 

Il quadro sociologico che propone è molto negativo, anche noi siamo cresciuti con le pubblicità e la tv, ma non siamo diventati dei vandali?

 «Ma la tv e la pubblicità che vedevamo noi, almeno io che ero ragazzo negli anni Sessanta, erano molto diverse da quelle di oggi. Oggi tutto è pubblicità, non c’è più soluzione di continuità tra Jerry Scotti e il riso Scotti che lui pubblicizza».

 

Come fornire ai nostri bambini, invece, un nutrimento compenetrato di vita e di qualità spirituale?

«Mi permetto solo di dire che la mercificazione generalizzata in cui viviamo non aiuta i bambini a crescere equilibrati».

 

Una ricerca indica che solo il 15 per cento delle persone acquista un prodotto su consiglio della pubblicità. Non è allora poi così importante nella determinazione della scelta la pubblicità diretta…

«Comprare è una delle attività di una persona adulta, non la principale come qualcuno vorrebbe farci credere. La vita è meglio viverla che consumarla. E le merci che servono ai bambini, i vestiti, i materiali per la scuola, i giochi è sempre meglio che li acquistino i genitori, come si è sempre fatto. Invece ora è diventata maggioritaria una categoria di bambini saccenti, informati, tecnologizzati, che piantano grane se non hanno subito quello che vogliono. Dei piccoli mostri da rimettere al loro posto».

 

Non le sembra di essere apocalittico quando, poi, lei stesso scrive che «la maggioranza dei bambini esce positivamente dalla lotta con l’iperconsumo»…

«Al contrario, mi pare di essere pieno di speranza. Ci sono ancora bambini per fortuna che si occupano di cose da bambini. Come diceva don Lorenzo Milani: “Un bambino che si occupa di cose più grandi lui è sempre un imbecille”».
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