Chi formerà le nuove classi dirigenti?
Il dibattito sull’università si fa sempre più serrato, non solo a livello italiano, ma europeo e mondiale. Nate nell’Europa medievale, come luoghi nei quali si conduceva una appassionata ricerca della verità e, allo stesso tempo, si produceva la classe dirigente adeguata a quell’epoca, oggi le università sembrano completamente assorbite dal problema di inseguire i rapidi cambiamenti che avvengono a livello economico e sociale. Il più delle volte, intendono come loro compito quello di interagire con il mondo economico giocando un ruolo importante nella ricerca che produce innovazione tecnologica, e nel cercare di preparare personale all’altezza delle esigenze produttive. Questa disponibilità nei confronti del mercato, pur necessaria se equilibrata, non è universalmente condivisa, specie se ad essa si vuole ridurre l’intero compito dell’università. Da più parti si sottolinea che si deve porre al centro della formazione universitaria la persona: ma diventa sempre più difficile riempire di contenuti effettivi questa esigenza. Ciò che diventa sempre più evidente è la mancanza di un vero progetto culturale, paragonabile, per forza e capacità di prospettiva, a quello che fece nascere l’università in pieno Medioevo. Come interpretare questa crisi culturale, e come uscirne? Ne parliamo con Piero Coda e Sergio Rondinara, entrambi docenti universitari e impegnati anche in nuove esperienze di alta formazione. Prof. Coda, l’università sta vivendo, in tutto il mondo, in acque agitate; in Italia e in Europa in particolare, si sta assistendo ad un grande processo di trasformazione. A suo giudizio, in quale direzione stiamo andando? Certamente l’istituzione universitaria sta attraversando un momento di trasformazione a partire dalle sue stesse fondamenta, ma anche rispetto alle sue finalità. La trasformazione viene avvertita come una necessità radicale. Le due finalità fondamentali dell’università sono, da una parte, un accesso rigoroso e libero all’approfondimento, alla formulazione, alla comunicazione della verità nei diversi ambiti scientifici; dall’altra, una adeguata preparazione professionale come servizio alla società del nostro tempo. Entrambe queste finalità non sono lucidamente perseguite né raggiunte – in questo loro profilo alto -, in sé stesse e nella loro connessione, dal sistema universitario vigente, o lo sono in modo molto debole. Questa crisi è scoppiata d’improvviso? Nietzsche, già nel 1870, con la sua lucida capacità di leggere la si- tuazione, diceva: L’università è un ostacolo al dedicarsi totalmente alla ricerca della verità. È paradossale: l’università, all’interno della società medievale, nacque proprio per quella ricerca. Se posso dire una testimonianza… uno studente di giurisprudenza venne un giorno da me; intendeva dedicarsi alla filosofia e mi disse, con cosciente disillusione: Perché ci insegnano tante cose, ma non siamo guidati nel cammino?; gli studenti, cioè, non ricevono una formazione alla ricerca della verità e alla preparazione professionale di sé stessi. Sono sintomi molto evidenti e molto forti che indicano la necessità di un ripensamento globale del sistema universitario. Non si possono mettere toppe nuove su un abito vecchio . Si può pensare di rifondare l’università senza occuparsi anche di tutto il resto? La crisi dell’università sembra esprimere il disorientamento di una civiltà, non solo dei suoi luoghi formativi… Certamente la crisi dell’università è legata alla crisi della modernità, dell’eurocentrismo, alla situazione che la civiltà umana sta vivendo nel suo insieme. Per fare un’università di tipo nuovo, allora, si dovrebbe riuscire a vivere una vera e propria esperienza fondativa, che costituisca almeno l’inizio di una diversa civiltà? Questo è il punto: occorre una nuova esperienza fondante, condivisa, che costituisca lo humus vitale all’interno del quale l’albero antico dell’università possa dare una nuova fioritura. La grande tradizione culturale dell’Occidente che attraversa questa crisi, non è destinata a tramontare inesorabilmente, ma a rifiorire nella misura in cui sa rimettersi in gioco, rinnovando la sua identità e aprendosi a una logica universale, di rapporto con le altre tradizioni culturali. Lei vede, da qualche parte nel mondo, che esperienze di questo calibro si stiano realizzando? Uno degli elementi più innovativi del nostro tempo – se mi pongo nell’ambito cristiano – è costituito dalle esperienze dei movimenti ecclesiali, che rappresentano una lievitazione globale dell’esperienza cristiana vissuta da una comunità, dal popolo di Dio. All’interno dei nuovi movimenti ecclesiali si assiste al fiorire di percorsi di formazione e di ricerca culturale innovativi e basati proprio su un humus vitale condiviso. Nel Movimento dei focolari – che ha ormai una esperienza, sia spirituale, sia della dimensione sociale della fede cristiana, di oltre sessant’anni – un seme molto interessante, sperimentato già da cinque anni con frutti molto positivi, è quello dell’Istituto superiore di cultura Sophia: una formazione culturale per studenti universitari di tutte le discipline, che si incontrano sul terreno di una apertura incondizionata alla verità; verità che, nell’ottica cristiana, è incarnata in Gesù, che vive in coloro che sono radunati nel suo nome. È l’esperienza di iniziare a rispondere a quella provocazione epocale che proveniva da Nietzsche, cioè di ritrovare il luogo dell’istituzione universitaria come luogo in cui ci si può dedicare totalmente alla ricerca della verità. Il Movimento dei focolari è di per sé una comunità educante; inoltre, nel tempo, ha creato diverse scuole di formazione specifiche, dedicate alle diverse vocazioni che crescono al suo interno e ai diversi scopi che il Movimento persegue: scuole di spiritualità, di ecumenismo, di dialogo interreligioso, culturale, di impegno sociale. Da alcuni anni l’Istituto Sophia si dedica, in maniera specifica, alla formazione universitaria. Ma lo fa, se ho ben compreso, anzitutto ricostruendo il luogo, che naturalmente non è soltanto uno spazio fisico, ma una comunità, un luogo vitale, esperienziale: può spiegarlo più ampiamente? Il primo tratto caratterizzante è quello di vedere l’accesso alla verità come un cammino che coinvolge l’interezza della persona: non è solo questione di intelligenza, ma anche di affetto, di libertà, di fantasia. Proprio per questo tale ricerca è attivata all’interno di una esperienza comunitaria e, sul piano scientifico, va oltre gli steccati disciplinari (spesso intesi come compartimenti stagni), rimettendo le diverse discipline in rapporto l’una con l’altra; è chiaro che si rispetta la legittima autonomia di ciascuna, ma superando la frammentazione e la parcellizzazione della verità, proprio per ridare alla ricerca della verità da parte dell’uomo la sua costitutiva unità. In fondo, l’idea di universitas, sia nella sua forma medievale che in quella moderna, indica proprio una apertura universale alla verità in tutte le sue dimensioni, attraverso tutti i cammini disciplinari che sono a disposizione della ricerca umana. E in questo contesto ritengo fondamentale non solo il recupero delle diverse anime della tradizione europea, ma anche l’apertura alle diverse culture e alle diverse tradizioni sapienziali umane. Questa dedizione totale alla ricerca della verità richiede un’attitudine sia spirituale, che intellettuale ed esistenziale all’accoglienza, all’ascolto, alla ricerca insieme. La forma individualistica della ricerca scientifica, che ha caratterizzato tanta parte dell’istituzione universitaria nella modernità e che ha mostrato tutti i suoi limiti, va superata; si richiede una ripresa del grande ideale di sempre, da Platone in avanti, del vivere insieme per poter insieme dialogare e mettersi in ascolto della verità. Verso la transdisciplinarietà L’interazione tra le discipline si sta spingendo sempre più avanti nel superamento della frammentarietà del sapere. Prof. Rondinara, per raffigurare l’esperienza che la maggior parte di noi ha dell’incontro fra diverse discipline, si può pensare alla collaborazione fra diverse professionalità alla ristrutturazione di un appartamento, o al momento in cui, in un ospedale, medici di diverse specializzazioni fanno un consulto intorno ad un malato… In questi casi parliamo soltanto di pluridisciplinarietà: più persone, che rappresentano discipline diverse, interagiscono avendo in comune il loro oggetto di studio, in questo caso il malato; è una fase iniziale della collaborazione tra discipline, che può però evolvere nella interdisciplinarietà. E quest’ultima in che cosa consiste? Abbiamo interdisciplinarietà quando più discipline si mettono insieme, e lavorano su un argomento comune a tutte, con una interazione dei loro metodi di lavoro. Un esempio di interdisciplinarietà è dato dalla fisica matematica, una disciplina che si pone tra la fisica e la matematica con una compensazione dei due metodi: cerca cioè di comprendere la realtà utilizzando sia metodi matematici che fisici. La scoperta dell’antimateria, per esempio, è avvenuta in questo modo. Lavorare in modo interdisciplinare porta ad un cambiamento nei rapporti tra le persone e nel loro modo di fare università? Certamente. Costringe le discipline ad aprirsi l’una all’altra non solo nei contenuti, ma nella metodologia, che è la caratteristica più preziosa di una materia. Nessuna perde la propria identità, ma si creano le condizioni per raggiungere una forma di conoscenza diversa da quella disciplinare. L’interdisciplinarietà è l’ultimo fronte nel rapporto fra le discipline? costituito dalla transdisciplinarietà. Essa non si configura come una disciplina, né come una iperdisciplina, cioè un sapere che sovrasta tutti gli altri, una superscienza: è invece uno spazio concettuale, uno spazio relazionale tra le discipline, in maniera tale da far emergere dati, conoscenze, che una disciplina da sola non potrebbe raggiungere. Vediamo se ho capito bene: la prima fase, quella della pluridisciplinarietà, consiste, sostanzialmente, in uno scambio di dati e informazioni tra saperi diversi, come fanno i medici al capezzale del malato; il secondo livello, quello dell’interdisciplinarietà, realizza una comunicazione e integrazione tra i metodi di saperi diversi; la terza fase, quella della transdisciplinarietà… …è una nuova forma di sapere; che valorizza le conoscenze di ogni singola disciplina e, anzi, si alimenta di esse, ma riesce a dare una visione sul mondo che la singola disciplina, con la sua parzialità, non può cogliere. La transdisciplinarietà – anche se il termine gira da più di un secolo – è ancora, prevalentemente, una prospettiva, ma ritengo che oggi abbia la fondazione adeguata per superare la frammentazione del sapere, per creare dei sentieri verso l’unitarietà del sapere; unitarietà che è, in effetti, autentica espressione della cultura umana. Certo, è una prospettiva molto recente. Da poco, a Parigi, è stato costituito il primo Istituto della transdisciplinarieà; le personalità che hanno redatto la Carta della transdisciplinarietà, nel 1994, provengono da diverse discipline: Edgard Morin è sociologo, Basarab Nicolescu è un fisico teorico, Francisco Lima de Freitas è un artista. È interessante notare, dunque, che ciò che si comincia a sperimentare – come seme – nell’Istituto Sophia, e di cui parla il prof. Coda, è in consonanza con i traguardi che il grande dibattito scientifico contemporaneo si propone.