Chi ci guadagna dalla rivalutazione delle quote Bankitalia
Andrea Baranes, presidente della Fondazione culturale di Banca Etica continua a commentare la questione della rivalutazione delle quote di Bankitalia (leggi la prima parte dell'intervista), approvata con un decreto convertito in legge tra le polemiche parlamentari e gli scontri tra la presidente della Camera e alcuni deputati. La Banca d'Italia pur essendo un istituto pubblico ha in realtà quote detenute da privati, in particolare da due grossi istituti di credito: Intesa San Paolo e Unicredit.
Cosa hanno guadagnato le banche private coinvolte, si tratta davvero di un regalo o serve a rilanciare l'economia?
«Le banche hanno avuto almeno due ordini di guadagni: da un lato la patrimonializzazione, dall'altro possibili entrate future. Il primo: se un mio quadro da un giorno all'altro passa da mille a 5 mila euro posso dire di essere più ricco, ovvero è aumentato il mio patrimonio. Lo stesso avviene per le banche che si trovano a detenere quote che di colpo valgono molto di più. Per le banche il patrimonio è fondamentale: da questo parametro dipende in particolare quanti prestiti possono erogare e quanto sono solide. Di fatto l'operazione di aumento delle quote ha questo obiettivo in particolare nell'ottica del governo: con un aumento gratuito di patrimonio, le banche potrebbero (e dovrebbero) erogare più credito, e tornare a finanziare l'economia, le imprese, le famiglie, quindi aiutare la ripresa dell'economia, oggi strangolata dalla mancanza di accesso al credito bancario, il cosiddetto credit crunch. Il secondo vantaggio per le banche è legato ai profitti che deriveranno nei prossimi anni dalla detenzione delle stesse quote: la Banca d'Italia realizza degli utili, che in parte vengono girati al Tesoro, e in parte ai detentori delle quote. Fino a oggi tali utili per le banche private erano pressoché trascurabili. Da domani potrebbero essere molto sostanziali, fino a un massimo di 450 milioni di euro l'anno. Questo è il vero “regalo”: fino a oggi tali ingenti risorse finivano interamente nelle casse pubbliche. Da domani, “in cambio” dei 900 milioni di entrate fiscali che arriveranno una tantum, il pubblico rischia di perdere fino a 450 milioni di euro l'anno di potenziali entrate».
Si poteva pensare ad una soluzione diversa?
«Si potevano pensare moltissime altre procedure. Come detto non c'erano vincoli europei che impedivano di prendere strade diverse, di dare un valore differente alle quote, di redistribuirle tra le banche prima di rivalutarle in modo che non ci fossero due soli gruppi bancari con oltre il 60 per cento delle quote rivalutate, e via discorrendo. In tal senso la decisione è stata eminentemente politica, non economica o legata a una qualche necessità giuridica. E in questo senso sarebbe stato auspicabile, per usare un eufemismo, un reale dibattito parlamentare e non il ricorso al decreto legge del governo che, di fatto, impedisce tale dibattito».
La scadenza del 31 gennaio era ultimativa relativamente alla votazione della Camera oppure poteva essere rinviata senza incorrere in sanzioni o altro?
«Non c'erano sanzioni o scadenze particolari. Di fatto l'unica scadenza era nella necessità di trovare la copertura per l'abolizione della seconda rata dell'Imu (in questo senso si può leggere la decisione di infilare Imu e revisione quote BdI nello stesso decreto legge). Questo è forse il punto più grave e sostanziale dell'intera vicenda: secondo la Costituzione, il riscorso al decreto legge è possibile "in casi straordinari di necessità e di urgenza". In questa situazione non sembrano davvero esserci tali requisiti “straordinari”. Se c'è un punto politico da trarre, questo sembra l'esautorazione del Parlamento, e il fatto che i tempi della finanza non possano aspettare quelli della democrazia. È l'elemento più grave che probabilmente emerge da tutta la vicenda della rivalutazione delle quote della Banca d'Italia».