Chi c’è dietro l’attentato di Nairobi
Il sequestro di centinaia di ostaggi nel grande centro commerciale Westgate di Nairobi, lo scorso sabato, ha tenuto il mondo con il fiato sospeso sulla sorte dei sequestrati e sull’identità dei sequestratori, che sono stati identificati e si sono presentati sui social network come una cellula di al-Qaeda somala, denominata al-Shabaab. Il bilancio delle operazioni di liberazione messe in atto dall’esercito è tragico: 72 morti, tutti non islamici perché selezionati in modo scenografico dagli attentatori con un test religioso sulle preghiere coraniche.
Abbiamo chiesto a Giulio Albanese, fondatore della Misna (Missionary international service news agency) ed esperto dell’Africa e dei Sud del mondo, un commento sull’attentato e sulle ripercussioni di questa vicenda.
Quale lettura dare di quanto accaduto a Nairobi?
«È un fatto gravissimo che non va sottovalutato. Ricordiamo che proprio gli attentati del 7 agosto 1998, perpetrati contro le rappresentanze diplomatiche Usa a Nairobi e Dar es Salaam hanno segnato l’uscita pubblica di al-Qaeda, prima ancora dell’11 settembre. C’è poi un mix di fattori che si incrociano: in Somalia le cose vanno molto male. Il 18 settembre mentre il presidente somalo era in Italia, a Mogadiscio ci sono stati 17 attentati e sono accaduti nel totale silenzio della stampa. Adesso colpendo un centro commerciale a Nairobi, frequentato da occidentali, il cui proprietario è un israeliano, la notizià è diventata appetibile e ha messo in moto la macchina dell’informazione».
C’è anche altro.
«Quest’operazione terroristica va anche al di là delle vicende somale, molti dei terroristi non sono di nazionalità somala, forse sono di origine, ma vivevano in altri Paesi e quindi c’è un’altra regia. Quanto avvenuto a Westgate è un’azione premeditata e studiata a tavolino perché erano tutti equipaggiati con armi di ultima generazione. E quindi dietro c’è un’organizzazione seria e non un manipolo di affiliati ad al-Shabaab».
Come legge questa selezione degli ostaggi tra musulmani e cristiani?
«Questa è una mossa folkloristica che vuole impressionare: questa distinzione e questi interrogatori sono studiati. Alle spalle c’è una regia di altro livello. Chi ha interesse in questo momento a creare situazioni destabilizzanti, dietro le quinte? A mio parere c’è un sostegno del salafismo. Perché i Paesi occidentali nei confronti dei governi della penisola arabica sono sempre indulgenti e l’unica preoccupazione è fare affari? Non c’è molta coerenza tra le cancellerie quando si toccano questi nervi scoperti. Bisognerebbe approfondire le nostre scelte politiche».
L’idea di una regia occulta serpeggia anche sulla questione siriana e sulle altre guerre africane.
«Bisogna essere realisti. Due anni fa il Kenya è intervenuto militarmente in Somalia e al-Shabaab vuole fargliela pagare, ma non è solo questo. Lo scenario non è semplice e poi Kenyatta, attuale presidente kenyota, è inquisito dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Poi c’è la crisi economica che il Paese sta attraversando con un aumento dell’Iva che sta fortemente penalizzando la classe media. L’attentato si inserisce in una fase molto delicata per il Paese e il rischio è che la crisi somala si propaghi anche dentro il Kenya e fuori».
Ci sono rischi anche su altri fronti?
«Il rischio più alto dal punto di vista umanitario è che a pagare le conseguenze di questo dramma siano i rifugiati somali in Kenya. Qualcuno dice che andrebbero espulsi e questo sarebbe un vero disastro anche per le conseguenze sul fronte migratorio che interesserebbero anche l’Occidente. Non va dimenticato che in tessuti sociali caratterizzati da forti ingiustizie e sopraffazioni e dove l’esclusione sociale è notevole – e la Somalia in questo senso offre un terreno fertile – si gettano le basi perché maturi ogni genere di fondamentalismo».
Il fondamentalismo africano non ci sembra particolarmente sotto osservazione.
«In questo caso è vero che molti dei terroristi sono di origine straniera e gli al Shabaab sapevano qualcosa, tra loro c’era un somalo, ma in fondo c’è qualcosa che è creato all’esterno. Lo scenario però è sintomatico dello spostamento di una linea di faglia da Oriente a Occidente. Se il Medio Oriente fino a poco tempo fa è stato al centro di questa faglia ora l’asse si sta spostando sul versante africano, come dimostra la crisi maliana. E quindi l’Africa sarà teatro di nuove conflittualità e il fenomeno migratorio continuerà a crescere».
Quali altri fattori si individuano in questo scenario occulto?
«C’è il controllo delle fonti energetiche, perché la Somalia galleggia sul petrolio, c’è poi uranio, gas… Il petrolio sta anche in Kenya, dove dovrebbe arrivare l’oleodotto dal Sud Sudan. E questo Paese si oppone al Nord Sudan. Ci sono quindi tanti interessi nella destabilizzazione dell’area. Il Kenya ha spalancato le porte alla Cina, ha costruito case e messo in piedi stazioni televisive. Malindi, ad esempio, da città italiana è diventata città cinese. La situazione è complessa e non va semplificata».
Come valutare quest’intervento dell’esercito?
«I militari africani non godono della stessa reputazione che questa figura ha in Occidente: spesso esercitano azioni coercitive sui civili e nei posti di blocco, chiedono tangenti e pagamenti non dovuti. Le teste di cuoio intervenute non avevano la stessa preparazione di quelle inglesi o francesi o americane e per questo ci si è rivolti ad esperti di queste nazionalità ed anche a quelli israeliani. Ci sono lodevoli eccezioni, ma la preparazione e la stima non sono di alto livello».