Che fine ha fatto Puigdemont?
Seguire i suoi passi sulla stampa e i comunicati in Spagna e in mezza Europa (almeno quella comunitaria) potrebbe offrire a un acuto sceneggiatore degli elementi sufficienti per stendere il copione di un interessante thriller politico. Il primo ottobre 2018 si compie un anno da quel “referendum” che produsse le ben note violente immagini scandalosamente diffuse in tutto il mondo. Mai quel referendum fu approvato dal governo centrale spagnolo, eppure è stato la base su cui poggiò il governo catalano per la storica e polemica dichiarazione d’indipendenza della Catalogna, il 27 ottobre 2017.
Ma ora, dove sono, sia Puigdemont che il resto dei politici “fuggiti” o “esiliati” (dipende da chi definisce la loro situazione)? Continuano a portare avanti il loro discorso indipendentista, in particolare sulle reti sociali, ma anche attraverso i media tradizionali. Sono sette i leader del «processo» (così fu etichettato il percorso verso l’indipendenza) ora fuori dalla Spagna: quattro in Belgio, due in Svizzera e una in Scozia. Altri nove indipendentisti di rilievo sono nello stato di “politici in prigione” o “prigionieri politici” (anche qui dipende dal punto di vista), portati in luglio nelle carceri catalane, per concessione del nuovo governo socialista di Pedro Sánchez.
L’indipendentismo catalano si trova però in difficoltà e con le forze frammentate. Il nuovo governo regionale legalmente costituito, dopo una breve sospensione decretata da Madrid, è di nuovo sulla linea indipendentista, anche se con una scarsa maggioranza uscita dalle urne. Infatti, se da una parte il “fiocco giallo”, il cui significato alle volte è ambiguo, è diventato il simbolo di una pacifica protesta cittadina, d’altra parte i costituzionalisti (unionisti, se si vuole) hanno preso coraggio e non esitano a manifestare in piazza, cosa che prima non accadeva con tanta facilità. Scontri tra gli uni e gli altri si sono registrati, ma incidenti drammatici però non sono mai stati registrati.
L’attuale presidente catalano, Joaquim Torra, e in genere i membri del suo governo, evitano di partecipare agli eventi in cui sia presente re Felipe VI, un modo per non riconoscere la figura del capo dello Stato e come rivendicazione di una possibile repubblica catalana. Ma in fondo è un modo di assecondare l’opinione del proprio pubblico, perché incertezze sul futuro del “processo” non mancano. Puigdemont, che funge da “presidente in esilio” e segue da vicino l’evolversi degli avvenimenti, ha già messo in moto una nuova formazione politica, la Crida nazionale per la repubblica, in vista delle elezioni comunali nel maggio prossimo. Vorrebbe accomunare le diverse forze indipendentiste, ma perfino membri del suo precedente partito, il PEdCat, vedono in questa manovra «un movimento populista, attorno alla leadership inconfondibile e messianica di Puigdemont, ma senza alcun progetto di Paese», come si è espresso Oriol Vidal-Barraquer, uno degli ultimi in linea di tempo ad abbandonare il partito.
Puigdemont cerca di far leva in Europa su altri movimenti indipendentisti. Recentemente con questo scopo ha pubblicato un libro, La crisi catalana, una oportunitat per a Europa, dove dice al riguardo: «La crisi catalana è un’opportunità per l’Europa, per dimostrare che i diritti umani sono la sua principale forza di fronte a quegli autoritarismi che s’impadroniscono delle regioni che temono l’Europa quando questa viene considerata l’avanguardia dei diritti umani: Russia, Cina, Stati Uniti…». Che sia messianico o meno lo dirà la Storia. Per ora non è che trovi tanta adesioni alle sue idee nel panorama politico europeo; anzi è solo di paio di giorni fa la notizia che l’esecutivo dell’Alleanza dei liberali e dei democratici per l’Europa (Alde) ha proposto di espellere il PDeCAT del gruppo. E si capisce perché: nell’Alde è assai forte il partito Ciudadanos (C’s), che vinse le ultime elezioni in Catalogna ma non riuscì a formare governo.