Che fai tu, luna, in ciel?
La poesia (parlo della grande) è connaturale alla notte più che al giorno, perché, pur essendo entrambi, notte e giorno, simboli primari e archetipi del sentire universale (basta pensare alla Bibbia), la poesia è di per se stessa, per propria natura, cioè per il suo rapporto fondante tra il detto e il non detto, apofatica: scopre nascondendo, dice tacendo, mette in evidenza ciò che le cose non sono, abolendo ciò che credono di essere e rivelando il loro valore autentico di non-essere in cui però si specchia l’infinito.
La notte è dunque il “luogo” deputato dalla poesia, il tempo in cui meno mentitamente le cose si confessano. E basta una breve ricognizione esemplare a confermarlo.
Facciamola attraverso sei prospettive che definirei classiche: la notte-pace; la notte-purificazione; la notte-attesa; la notte-solitudine; la notte-nulla; e, sintesi di tutte, la notte-domanda (cosmica).
La notte-pace
Non è così frequente nei poeti, perché anch’essi, come tutti gli uomini, tendono a riversare nella notte le questioni irrisolte del giorno, e, come lamentava un albergatore, a dare la colpa della loro insonnia ai suoi cuscini invece che alla loro coscienza. Ma quando ci si mettono i grandi poeti, non è così.
Va appena menzionato, per la sua notorietà, il grande sonetto di Ugo Foscolo Alla sera, in cui la notte è sentita come immagine della “fatal quiete”.
C’è poi un bellissimo sonetto di Michelangelo, che fu anche grande poeta, O notte, o dolce tempo, benché nero, in cui essa è lodata perché toglie “a chi ben vive ogn’ira e tedio” – l’immenso artista le si rivolge, e certo non era di giorno uno spirito quieto – dicendo in un verso bellissimo tutta la sua fede: “in sogno spesso porti, ov’ire spero”.
Mario Luzi, poeta anch’egli qualche volta di chiara grandezza, in una poesia fin dal titolo di reminiscenza michelangiolesca, La notte lava la mente, descrive la pace notturna per contrasto, pensando in chiave dantesca (e ricordiamo quanto Dante era amato da Michelangelo che lo leggeva quotidianamente e vi si ispirava) al giorno imminente: “Poco dopo si è qui come sai bene, / file d’anime lungo la cornice, / chi pronto al balzo, chi quasi in catene”.
La notte-purificazione
Gli esempi potrebbero essere molti, ma limitiamoli a tre. Il primo e maggiore è quello di Dante, che in tre momenti ci presenta notti essenziali della sua anima in viaggio: nella “selva oscura” lo stato di crisi che richiede il cammino di purificazione descritto nella Commedia è definito in un verso magistrale: “la notte ch’i’ passai con tanta pietà”.
L’inizio del viaggio è collocato nella notte in cui mentre tutti dormono lui solo si prepara “a sostener la guerra / sì del cammino e sì della pietate”. Alla porta del Purgatorio giungerà poi, lasciato l’Inferno e l’Antipurgatorio, non per suo merito ma per opera della Grazia raffigurata nel sogno in un’aquila che durante la notte lo eleva a quell’altezza.
Nella letteratura più recente troviamo Manzoni che, oltre allo splendido notturno dell’Addio monti, nei Promessi Sposi ci affresca da par suo la notte dell’Innominato, ne prepara la conversione stringendolo nel nodo di un’intrattabile paura spirituale: di fronte alla prospettiva di un’altra notte di tormento dopo quella già in atto, l’uomo esclama: “Oh la notte! No, no, la notte!”; che è tutto dire.
Nel Diario di Dostoevskij troviamo la stupenda descrizione della veglia notturna dello scrittore sul cadavere della prima moglie, Maša, risolta in una meditazione così profonda (“La rivedrò io mai?”) da dettargli dopo qualche giorno la mirabile comprensione dell’amore evangelico che consiste nel dare se stessi senza pretendere nulla in contraccambio.
Per tutti e tre, certo, ci vogliono lettori capaci di avventura spirituale.
La notte-attesa
Qui troviamo grandi poeti antichi e moderni. Come non pensare subito alla “noche oscura” di San Giovanni della Croce, in cui l’anima cerca con ineffabile abbandono di sé l’amato, come la sposa del Cantico dei cantici?
Ma questo capolavoro della mistica e medesimamente della poesia va affrontato da soli e fino in fondo.
Vicini a noi nel tempo due grandi oggi poco frequentati. Giovanni Pascoli, dopo aver dato ne La mia sera un meraviglioso canto dell’acquietarsi dell’anima, compone con Il gelsomino notturno uno dei massimi capolavori della lirica moderna, trepidante incantata evocazione di una notte di nozze.
Emily Dickinson, a mio parere la più grande poetessa degli ultimi secoli, ci offre in due momenti una sospesa intimità notturna: “L’ultima notte ch’ella visse fu / simile a ogni altra notte/ se non per la sua morte, che scopre / diversa ai nostri occhi la natura”; “Non conoscendo quando verrà l’alba, / io spalanco ogni porta. / O forse piume avrà come un uccello, / onde come una riva?” (trad. S. Raffo, G. Giudici, M. Guidacci).
La notte-solitudine
Rimandando Leopardi in ultimo, perché sintesi di tutte le notti, ricordiamo qui l’antica-moderna Saffo che dice: “Tramontate sono le Pleiadi / ed io qui giaccio sola”; e il tenero, mozartiano Catullo, che per indurre all’amore la sua non tenera amata l’ammonisce: “Non appena tramonti la breve luce della vita / dovremo dormire un’unica notte perpetua”.
La notte-nulla
In ambito decisamente contemporaneo la notte-nulla. Nel bellissimo racconto breve di Hemingway Un posto pulito, illuminato bene, l’avventore notturno di un bar periferico intona la disperata parodia del “padre nostro”: “Nada nostro, che sei nel nada…”.
Spostandoci un attimo nella poesia della pittura possiamo dolorosamente ammirare i notturni del norvegese Edvard Munch, in cui una straordinaria dolcezza lirica si immerge in totale sgomento spirituale, come nel famoso Grido, portando all’estremo la perplessità sofferente dei notturni vangoghiani.
Una contemplazione dolente ma attentissima e fraterna ci porge invece la grande poesia di Ungaretti O notte, che conviene a una lettura contemplativa.
E giungiamo così a Leopardi, che primus inter pares, ci dà con il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia uno dei capolavori assoluti della poesia, un notturno genesiaco e insieme apocalittico, in cui l’uomo di ogni epoca, un Giobbe e un Qoèlet, si pone radicalmente le domande di tutti i tempi.
Ma rinuncio a parlarne anche solo per accenni, perché non basterebbero molte pagine a dirne qualcosa di serio.