Che cosa significa “gender”?
Si assiste oggi, specialmente in ambito educativo, a una crescente discussione, quando non a una dura battaglia, tra due tendenze estreme: da una parte, i fautori dell’agenda di genere che – in nome dei princìpi di uguaglianza, non discriminazione e autodeterminazione del singolo – propongono una educazione alla diversità che prevede la promozione delle minoranze sessuali e l’equiparazione giuridica e simbolica di ogni forma di relazione affettiva; dall’altra, la reazione degli oppositori che sospettano una forma di indottrinamento concertato da interessi potenti, con lo Stato che funge da garante. Genitori e insegnanti rimangono di frequente disorientati e confusi sul significato dei termini in discussione e sulle implicazioni sottese allo scontro.
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Per orientarci nel complesso dibattito in corso, è opportuno fare alcune premesse.
Per millenni l’avventura umana si è basata su un’antropologia binaria: maschio-femmina, uomo-donna. Col tempo, però, sono emersi alcuni esiti problematici, perché la differenza sessuale ha implicato anche discriminazione o contrapposizione. A partire dalla fine degli anni ’60, alcune esponenti del Movimento di liberazione delle donne hanno messo a fuoco le principali forme di oppressione basate sulla differenza di genere:
1) l’oppressione materiale e simbolica dell’uomo sulla donna: da un lato, lui ne controlla il corpo, la sessualità e la generazione; dall’altro, stabilisce una «valenza differenziale fra i sessi», ovvero una gerarchia tra ruoli e attributi maschili e femminili, assegnando a se stesso il lato socialmente più apprezzato.
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2) la costruzione di rigide frontiere tra le identità di genere: all’interno dell’organizzazione patriarcale, ciascuno è chiamato ad appartenere a uno o all’altro dei sessi, ogni altra configurazione essendo socialmente sanzionata. Non si tiene in debito conto la vulnerabilità di chi nasce con genitali ambigui – bambini intersessuati – o di chi si sente intrappolato in un corpo che non gli corrisponde – transessualismo, oggi rinominato disforia di genere;
3) la produzione di stereotipi di genere (per cui, ad esempio, si suppone che le donne non siano brave in matematica e gli uomini non possano piangere): questi schemi ripetitivi provocano non di rado sofferenza, senso di inadeguatezza e non accettazione di sé, se un uomo o una donna non sono in sintonia con il modello dominante.
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I gender studies e il postfemminismo, nell’ultimo scorcio nel Novecento, affermano che l’essere umano non è uno né due, ma molteplice. Questo vuol dire che è frammentato, nomade, plastico. Il genere separa, per esempio, la percezione di sé (identità di genere) dalle aspettative sociali (ruolo di genere), il corpo (come si nasce) dall’autoidentificazione come maschio o femmina (come ci si sente); fa dell’identità di genere uno schema mentale (psico-sociale) influenzabile dall’educazione e dal sistema delle aspettative in una data società. Promuove infine la trasformazione del tessuto sociale: il regime di genere può infatti essere fatto e disfatto a seconda dei rapporti di forza, riconfigurando per esempio l’istituto del matrimonio o l’ordine della generazione.
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Nelle teorie del genere il soggetto appare determinato dai condizionamenti sociali; meglio, dai rapporti di potere e dai loro imperativi culturali (compreso quello di disfare ogni identità). Se però si considera l’essere umano come esclusivamente sottomesso alle costruzioni sociali, si nega da una parte il suo radicamento in un corpo, e quindi la sua capacità di fare esperienze proprie (non dettate da copioni pronti all’uso); dall’altra si nega anche la possibilità che il soggetto prenda le distanze rispetto ai propri vissuti e alle pressioni sociali assegnando loro un senso personale. In altri termini, sono negati al tempo stesso il corpo che sente e la natura spirituale dell’essere umano.
La proliferazione di identità transitorie e la polverizzazione delle differenze promossa dal transgender maschera poi il rifiuto del limite e la paura di riconoscersi finito. Nel suo sogno di essere ogni cosa, esso lascia trasparire la difficoltà ad avere a che fare con la differenza sessuale. La promessa della libertà assoluta (o di un desiderio senza vincoli) paga però un prezzo altissimo: l’instabilità di un’identità fatta e disfatta in continuazione ha un costo psichico e uno stress esistenziale enormi. Si promette libertà, ma si genera infelicità.
Da Gender di Susy Zanardo. Contributi di: Paola Binetti, Livia Turco, Daniela Notarfonso (Città Nuova, 2016)