Che “carriera”, papà!

Una storia di famiglia, di fede, e un rapporto speciale tra un padre e un figlio.  

Un pomeriggio d’ottobre di tanti anni fa nella casa paterna. Eravamo ancora riuniti in sala da pranzo dopo aver mangiato, quando suonarono alla porta. «È padre Venturino!» annunciò mio fratello Enrico, dopo aver sbirciato dalla finestra. Fu aperto e comparve il priore in persona, seguito da un altro frate con sottobraccio un rotolo voluminoso.

«A che debbo il piacere di questa visita?» fece papà, invitando gli ospiti ad entrare. «Vede, generale – esordì padre Venturino con fare diplomatico –, non so se la mia visita sarà proprio di suo gradimento, data la richiesta che sto per farle…». Papà tagliò corto sorridendo: «Di qualunque cosa si tratti, sono a sua completa disposizione». E indicò ai due religiosi le sedie che la mamma si era affrettata a procurare.

Incoraggiato dall’accoglienza, il priore cominciò a spiegare come per la costruzione della nuova chiesa aveva pensato al terreno attiguo alla nostra casa. Per questo era venuto a chiedere se era in vendita e a quale prezzo.

«Il prezzo? – rise stavolta papà –. Scusi, sa, ma se il Padreterno ha deciso di farsi una casa sulla “sua” terra (giacché non penserà mica che sia mia, essendomi stata solo affidata), vuole che non sia contento o che gliela faccia pagare? Ma andiamo!». E il priore allibito: «Il fatto è che di terra ce ne vorrebbe, oltre che per la chiesa, anche per la casa parrocchiale, il campo sportivo, le altre opere…».

Papà non gli permise di proseguire: «Ma senta, padre, visto che ha già pronta una mappa catastale – e accennò al rotolo che fra’ Albino brandiva diritto come un cero pasquale –, diamole un’occhiata, facciamo un bel tracciato sulla “mia” terra (faccio per dire!) e lei si prende tutta quella che occorre».

Detto fatto: sul tavolo che nel frattempo la mamma e le mie sorelle avevano sgomberato dei resti del pranzo, venne stesa la mappa e le trattative entrarono nel vivo, sotto gli occhi tra il curioso e il divertito di noialtri figli.

«Dai frutti si conosce l’albero! – venne da dire al buon padre Venturino –. Avrei dovuto immaginare che uomo è lei, conoscendo i suoi figli che tanto bene hanno fatto in parrocchia… Anche se – e qui fece una pausa d’imbarazzo –, mi risulta che da qualche tempo si siano defilati, impegnandosi altrove…». Con un’occhiata circolare ci passò in rassegna e proseguì: «Lei sa a cosa mi riferisco, vero? Perché da uomo avvezzo alla disciplina non li richiama ai loro doveri?».

Altra più fragorosa risata di papà – di quelle che lasciavano sconcertato più che offeso l’interlocutore: «Padre, se la terra non è mia ma di Dio, per caso i figli apparterrebbero a me e alla mia consorte?». E qui notai la mamma trattenere a stento i suoi singulti di riso. Al che l’altro, ammirato: «Davvero, generale, si meriterebbe che Sua Santità la nominasse cavaliere…».

Decisamente non gliene andava bene una a padre Venturino, considerata la risposta: «Senza offesa, se si trattasse di accettare un cavallo, anche alla mia età potrebbe essermi utile. Ma cavaliere? A che scopo? Di medaglie, fra l’altro, ne ho pieni i cassetti. Un vero regalo invece sarebbe se Sua Eccellenza il vescovo si risolvesse a chiudere la chiesetta dell’Adorazione…». E lasciando di stucco il priore continuò: «Sì, perché lì dentro, a far compagnia a Nostro Signore, spesso devo rimanerci quasi un’ora prima che entri un’anima. Mentre il mio augurio è che la nuova chiesa che sorgerà qui accanto si riempia di fedeli, trabocchi di anime».

Questo era mio padre. Un uomo che ha avuto un ascendente formidabile su quanti lo hanno conosciuto non già per aver percorso brillantemente i vari gradi della carriera militare (senza subirne però le deformazioni), ma per il fascino di una personalità multiforme e creativa, così vicina alla mentalità di noi ragazzi.

Nella nostra grande casa, infatti, che i più credevano funzionasse come una piccola caserma, pur non mancando la disciplina, era del tutto sconosciuta la pesante atmosfera militaresca, e scherzi e birichinate partivano spesso proprio da lui. Ci incantava la sua abilità nel fare cento lavori: orologiaio, idraulico, saldatore, muratore, falegname, meccanico…; innestava e potava le rose, curava il giardino, le fragole, allevava api, colombi, galline… Stando alle calcagna di un “pozzaro” imparò perfino a scoprire le vene d’acqua come rabdomante. E tutto in coerenza col detto agostiniano: «Se lo fanno questo e quello, perché non dovrei farlo anch’io?».

Ormai vedovo e solo nel suo appartamento in affitto, mi disse un giorno: «Vedi, potrei accettare l’invito di uno dei tuoi fratelli, ma non me la sento… I giovani genitori hanno la loro grazia di stato per educare i figli. Io sarei un riferimento non sempre attuale, potrei intervenire a sproposito».

Le radici del mio cristianesimo, oltre che nella fede di mia madre, vanno ricercate nella pedagogia paterna, basata sulle parole di Cristo: «Se tuo fratello ha qualche cosa contro di te…»; oppure «Quando stai per fare l’offerta all’altare…» con cui ci invitava a ricomporre l’armonia familiare turbata da qualche screzio. Spesso citava, per temperare spunti di giudizio o di vanteria: «Perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo?». Come pure, efficacissima a correggere atteggiamenti non ispirati all’amore e al rispetto: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Agiva senza preoccupazioni del giudizio altrui, rifacendosi al detto di san Pietro: «Dobbiamo ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini». Ci abituava così a fuggire la doppiezza, gli atteggiamenti adulatori, opportunistici o servili.

La prova impressionante di questa sua adesione al Vangelo l’ebbi quando, dopo l’improvvisa morte della mamma a soli 41 anni, mi abbracciò con forza, e fu tutto. Dopo di che riprese il suo sorriso di sempre, la sua dolcezza abituale, ora ancor più necessari a noi figli così smarriti e soli. La stessa forza d’animo dimostrò più tardi, vedovo anche di zia Mary, che aveva rinunciato ad una promettente carriera artistica per far da madre agli undici orfani della sorella: «Ma lo diciamo sempre nel Paternoster: sia fatta la tua volontà…». Si fermò qualche istante in preghiera davanti alla salma, in quella stanza d’ospedale, poi, stringendomi forte la mano: «Portami in cappella. Qui non c’è più niente. Là ritroverò mia moglie!».

Della morte non aveva paura, pur avendola sfiorata in un grave incidente stradale. E parafrasando la parabola delle lucerne accese: «Bisogna essere sempre pronti per quando arriva la “cartolina”… Al Comando Supremo ci si deve presentare con le carte in ordine». Era il suo stato d’animo anche quando dovette ricoverarsi d’urgenza per un preoccupante colorito giallastro. La diagnosi non lasciò adito a speranze: tumore al pancreas.

Eravamo d’accordo che gli si dicesse tutto senza giri di parole: «Caro papà – gli dissi piano, sedendomi accanto a lui, sul letto –-, sta arrivando la “cartolina”…». Mi fissò intensamente. «Fra quanto?». «Tre o quattro mesi. Non soffrirai, ci sarà una forte diminuzione dell’appetito, un aumento del colore itterico, debolezza…». «Beh, posso ritenermi fortunato. Per prima cosa sono stato avvertito in tempo, e questa è una grazia; poi non dovrei avere dolori, che non è poco… e infine, caro Giggì, lascia che te lo dica: ormai ho vissuto abbastanza, ne ho viste tante e sono proprio curioso di conoscere cosa c’è di là». Dopo questo colloquio, inspiegabilmente il male regredì. Da casa una telefonata: «Ma Giggì, che diagnosi avete fatto? Mai stato così bene, sono addirittura ingrassato! Va bene prepararsi a morire, ma ora…».

Nient’altro venne a turbare il suo placido tramonto se non una polmonite, anch’essa superata. Ma stavolta seguì un blocco renale. La conoscenza di papà scompariva lentamente, il respiro si faceva sempre più difficile, ma era sempre lui, con quell’espressione serena: la stessa che avrà avuto presentandosi sull’attenti al Comando Supremo.

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