Charron e Fabre: un figlio e un padre, nell’attesa

Al Festival Civitanova Danza e al Mittelfest di Cividale del Friuli lo straordinario performer Charron, mette in scena, in questo rituale d'addio, la sua storia personale
JAN_FABRE_ATTENDSATTENDSATTENDS (POUR_MON_PERE) fotoWONGE_BERGMANN

Tenendo in mano una lunga asta, il novello Caronte avanza remando. Vestito di rosso, barba e capelli lunghi, fisico asciutto, sguardo severo, Cédric Charron emerge da una fitta coltre di fumo che dal palcoscenico scende rasoterra in platea. Leggermente diradatasi, la nebbia rivelerà via via la danza istintiva, energica, violenta e calma, ossessiva e tenera, di un figlio che, anche con le parole, si rivolge al proprio padre supplicandolo, a più riprese, di aspettare. Aspettare per potergli parlare, per rinviare la morte che lo separerà definitivamente al suo sguardo. È una discesa agli inferi intesa come luogo di transito, come scandaglio interiore di un rapporto di amore. In "Attends, attends, attends… pour mon pére”, lo straordinario performer Charron, mette in scena, in questo rituale d'addio, la sua storia personale. Su di lui e per lui Jan Fabre – il geniale regista, coreografo, scultore e visual-artist fiammingo – ha plasmato un assolo di grande forza e potenza evocativa, per identificazione poetica e umana dell'interprete, capace di catturare occhi e respiro, trasportandoci dentro un viaggio spirituale ed emotivo, «sull'altra sponda del tempo». È lì che vuole condurre il proprio padre, cui si rivolge per tutto il tempo, per prepararlo e accompagnarlo nell'ultimo passaggio della vita. «Papà, lasciami ricordare il canto del desiderio», gli ripete più volte nel ricordo immaginario, nel tentativo di fermarlo – ogni volta con una moneta depositata a terra, che rappresenta un momento del loro rapporto – in quell'attesa del titolo che è sospensione del tempo: del tempo rincorso e atteso, del tempo mancato, del tempo incompreso, svuotato, perduto. Immerso in quel paesaggio costantemente nebbioso – elemento drammaturgico con la complicità di un magistrale disegno luci -, Charron interrompe il flusso di parole delle sette stazioni del suo sofferto percorso, impugnando a turno tre microfoni rossi. Con uno parla di se stesso, col secondo si rivolge al padre, col terzo parla al suo padre artistico, cioè Fabre, con cui egli lavora da quindici anni nella compagnia Troubleyn. Tra voce e performance fisica alterna diversi sentimenti trasformandosi in timido, sincero, supplichevole, rabbioso, ostinato, vulnerabile, mendico, trovando dentro di sé un dialogo interiore amleticamente sdoppiato e riflesso nella figura paterna. Si ferisce, sanguina, si trafigge con l'asta; striscia, salta, rantola con movimenti di danza disarticolati e scomposti, ruvidi e guizzanti, nell'attesa di una risposta del padre. Esaurito il suo appello, traghettatore dei vivi e dei morti, stancamente ritorna nella nebbia, remando. Per scomparire al nostro sguardo.

Al Festival Civitanova Danza e al Mittelfest di Cividale del Friuli.

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