Cezanne. Alla presenza dell’Assoluto
Quanto è luminosa la compagnia del dolore. È capace di dire parole altissime, che racchiudono un’epoca e ne aprono una nuova. Stando ormai da lungo tempo in amicizia con i disegni ed i quadri di Paul Cézanne, la costatazione si afferma spontanea: come spontanea, naturalmente semplice, appare la sua arte. Sempre gli identici temi: paesaggi (l’amato MonteSainte- Victoire, una sorta di Tabor di continuo rivisitato), nature morte, ritratti, bagnanti. Soggetti guardati con un amore cupo e incerto, nei primi anni di carriera; filtrati poi attraverso gli occhi impressionisti negli anni Settanta, ed infine racchiusi nella schiarita di una meditazione altamente personale, verso la fine della non lunga esistenza. C’è un fascino in queste tele, così difficile da defini- re, ma duraturo: ci si può sorprendere di svegliarci all’alba o ricordarle di notte, quasi fossero una presenza che ci accompagna. Il fatto è che l’arte di Cézanne è molto di più di un approdo estetico; di una conquista di bellezza, per quanto affascinante. Quei colori turgidi, che sono e non sono della natura; quegli spazi dalla prospettiva nuova, entro cui giganteggiano un ritratto o un tavolo di frutta, quelle forme che hanno il timbro della monumentalità, come geometrie bloccate dal colore, parlano. Più di altri, pur grandi suoi contemporanei: un Monet, un Sisley, un Pissarro; forse quanto o più di un van Gogh. C’è in loro, infatti, una “presenza”: per questo turbano e attirano allo stesso tempo; sono un velo che fa intuire una diversa dimensione. Cosa c’è dietro lo sguardo malinconico della Signora Cézanne, dalla testa “pierf r a n c e s c a n a ” (1885)? Cosa evoca la Natura morta con frutta e brocca (1890), dal faro luminoso della caraffa che dà vita a tutte le cose intorno? Quale universo portano le Bagnanti, forme chiare, libere da ogni sensualità? Davanti ad ogni disegno, anche solo accennato, o ad ogni tela, pur incompiuta o apparentemente sommaria, si sta così come di fronte al divino: sorpresi e catturati. Non si può nascondere infatti in Cézanne questa tensione all’Assoluto, la ricerca dolorosa, provata, di tutta la vita: in una solitudine esistenziale accentuata dalle incomprensioni, e pure immersa nei luoghi della “sua” Provenza, non tanto per captare le meraviglie della luce, ma piuttosto ad imprigionarla, la luce: così da scomporre le cose, frammentarle, e poi ricomporle in una superiore unità. Di qui i blocchi decisi delle rocce e degli alberi (L’acquedotto, 1890, Rocce nel bosco, 1893), le luminosità taglienti eppure forti (Il golfo di Marsiglia, 1885), i colori e gli spazi in cui ogni tinta comprende un arcobaleno di sfumature: una mela può dire un universo sentimentale, due mani sul grembo una vicenda dell’anima. Cézanne è di quegli artisti rari che sanno dare, con potenza sintetica, una realtà: come l’ammirato Michelangelo. Se ci si sofferma davanti al Piatto blu (1880), si resta sbalorditi dal fatto che una tela così minuscola (cm.26 x 21,5) trasmetta una dimensione spirituale tanto profonda: la sola forza di quel colore (pensiero ed emozioni tradotti in cromia), la solidità di quel- le forme (l’essenziale ritrovato) “si pongono” per noi come qualcosa di grande e inafferrabile certo, ma che ci innamora: perché ci esprimono nella nostra interezza con verità immediata. Cézanne è sempre in viaggio, alla ricerca dell’essere delle cose, di ciò che le muove: una tela come Acqua e fogliame (1893), dove i tocchi in punta di pennello ricreano la natura, spalancano l’anima verso altre sponde. Invitano al rischio di solcarle. Nel Ponte di Maincy (1880), i blocchi cromatici indagano frammento su frammento: una fronda, una pietra, un legno: ma non si fermano ad essi, perché a Cézanne non basta scomporre la realtà, de-costruirla, fermarsi al molteplice. Vuole poi tornare all’Uno che la governa. Ed è appunto ciò che sentiamo parlare dal dipinto. In una delle ultime tele sul Monte Sainte-Victoire, dai tocchi cerulei e dall’aria azzurrina di una primavera perenne, avvertiamo che il pittore forse ha colto la natura spirituale di quest’Uno: il suo occhio infatti ormai trascende la realtà fisica della montagna provenzale così come appare, e ce la mostra quale egli la vede: scomposto e ricomposto con infinito amore, esso più che un monte, è una presenza: un velo trasparente sull’Assoluto. Sarà questo il modo vero di cogliere ciò che ci circonda? Certo, di fronte ad un’arte tanto ricca, sicomprende il tributo di dolore pagato da Cézanne, la sua stessa morte solitaria, dopo una giornata en plein air: lui, che si considerava “un sacerdote consacrato all’arte”. Forse, anche a chi passa attraverso questa rassegna, è richiesto un minimo di sofferenza per poter entrare in rapporto con lui, con un mondo interiore da cui hanno attinto artisti come Picasso o Léger, e persone semplicemente assetate di bellezza. Cézanne infatti è esigente, come tutto ciò che è grande. Ma luminosamente appagante. Un sacerdote dell’arte 1839: nasce ad Aix-en-Provence. 1852: conosce Emile Zola, di cui diviene amico. Segue i corsi di disegno di Joseph Gilbert. 1861: a Parigi conosce Pissarro e Guillemin. Lavora per breve tempo in banca con il padre. 1865: Presenta al Salon un’opera che viene respinta, come gli succederà altre volte. Quattro anni dopo conosce Emélie Hortense Fiquet, che gli darà un figlio, Paul. 1870: scoppia la guerra, l’artista si allontana da Parigi, viene denunciato per renitenza alla leva. 1873: lavora con Pissarro en plein air. 1886: rottura con Zola. Matrimonio con Hortense. 1890: grazie alla sorella Marie diventa cattolico osservante. Esposizioni a Parigi e a Copenaghen. 1906: vive solo. Muore il 22.10 dopo esser stato colto da malore giorni prima, mentre dipingeva. La rassegna romana comprende una sessantina di lavori, in parte inediti per l’Italia, da collezioni private e musei internazionali. Alla mostra è abbinato un programma di coinvolgimento delle scuole, attraverso un laboratorio “Dipingere con Cézanne”, visite gratuite ed un concorso a premi di pittura.