Cercando le (la) verità
Venti autori per capire il Novecento (prima puntata).
Il Novecento è un secolo di grande complessità culturale, aggravata da confusioni, ambiguità ed equivoci che la attraversano in ogni direzione. Noi del terzo millennio lo ereditiamo cercando di capire ma senza illuderci di semplificarne l’intrico a colpi di ideologie ormai morte.
Ciò che vorrei proporre in due articoli, con brevità telegrafica, sono venti autori in grado di orientare culturalmente, con grande profondità spirituale, chi cerca, in quel secolo e nel nuovo, le verità e la verità.
1) H. von Hoffmannsthal, Lettera di Lord Chandos (1902). Quaranta pagine di straordinaria intensità e potenza espressiva per significare che la realtà, ogni minima realtà, è indicibile e inesauribile.
2) G. K. Chesterton, Ortodossia (1908). Un enorme scavo psicologico-culturale nell’inaridimento spirituale dell’Occidente, fino a mostrarne la debolezza o la falsità e a riscoprirne sotto le macerie la vena sorgiva, insopprimi-bile, del Vangelo.
3) J. R. Jimenez, Platero e io (1914). Immortale dialogo del poeta con un asinello: proprio perché inesauribile e indicibile, la realtà continua a essere detta interminabilmente dalla poesia, prima e dopo la morte di noi e di ogni essere: perché il visibile è icona dell’invisibile.
4) F. Kafka, Un messaggio dell’imperatore, La metamorfosi, Il Processo (1913-1922). Siamo al vertice della prosa del Novecento. Un genio esplora gli inferi dell’umanità decaduta fino al tragicomico della caricatura e della parodia. Il penultimo capitolo del Processo (“Nel Duomo”) offre la più spietatamente pietosa – perché immedesimata, crocifissa – diagnosi della condizione sadomasochistica, cioè di carnefice-vittima, dell’uomo sradicato e abbandonato a sé stesso.
5) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore (1921). Molto al di là di ciò che la critica ha detto di questo assoluto capolavoro, il dramma rappresenta ingegnosamente la necessaria e permanente crocifissione dell’uomo in cerca del suo autore. Le vere persone, centri di relazione, sono i personaggi, gli altri sono solo individui, ovvero solitudini che mentono a sé stesse fino al vaniloquio, all’insignificanza.
6) L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921) e Ricerche filosofiche (1952). Grande filosofo largamente frainteso e anzi capovolto (Vedi il “Dio in Wittgenstein” in Nuova Umanità, nn. 4-5, 2009), dimostra che si deve parlare solo di ciò di cui si può parlare, e che al di là di questo non c’è il nulla preteso da positivismo-materialismo-nichilismo, ma qualcosa di molto più grande, che egli chiama "il mistico".
7) L. P. Celine, Viaggio al termine della notte (1932). Grandioso reportage spirituale tragico-grottesco dell’Europa della prima guerra mondiale, sprofondata nell’infimo della propria ipocrisia e nella miseria della propria volontà di potenza.
8) T. S. Eliot, La terra desolata (1922), e Quattro quartetti (1936-1943). Il poeta del secolo elabora con grandi sofferenze esistenziali i due poemetti del secolo: ci vuole tempo, ben speso, per appropriarsi di tutto lo spessore poetico-filosofico-religioso di Eliot, e ne vale molto la pena.
9) Nel 1938 J.-P. Sartre pubblica il negativamente grande romanzo La nausea, manifesto dell’esistenzialismo ateo. In pagine improntate alla nostalgia del nulla Sartre porta alle estreme conseguenze, con il suo, si può dire, anti-Cantico delle creature, la separazione tra scienza e teologia incominciata con Galileo, Pascal, Cartesio (con radici in Leonardo) e maturata nell’Illuminismo radicale e nel materialismo ottocentesco, radici dell’odierno nichilismo.
10) S. Weil, Attesa di Dio (1943). Cristina Campo l’ha definito giustamente «libro immenso». L’"attesa" non è aspettazione passiva ma attiva crescita dell’attenzione per ogni cosa fino all’altezza del desiderio-preghiera, che attira Dio stesso. La più alta intelligenza del secolo (così credo anche quando non concordo con lei) vi esercita una penetrazione verticale-orizzontale della storia, della cultura, delle religioni, del Vangelo, centrata sulla croce di Cristo che dà a ogni cosa la sua esatta dimensione; con la totale libertà spirituale di una cristiana "sulla soglia" non inquadrata da appartenenze. Un solo assaggio: «Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non riesca più a trattenere il grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, se si rimane in quel punto senza smettere di amare, si finisce per toccare qualcosa che non è più la sventura né la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ovvero l’amore stesso di Dio».
(continua)