Cerbaiolo e il dono del silenzio
Siamo arrivati quassù in tre: Michele, Raffaele ed io. Il viaggio da Arezzo è durato più di un’ora. I primi 50 chilometri sono volati. Ma superata Pieve Santo Stefano, abbiamo dovuto rallentare parecchio una volta imboccata via di Cerbaiolo, uno stradone in salita che, dopo poche curve, è divenuto sterrato. Ci siamo inoltrati così in mezzo al bosco finché la via davanti a noi è sparita, trasformandosi in un sentierino irto e sassoso. Senza lo spazio per fare inversione, siamo tornati indietro in retromarcia, parcheggiando all’ultimo slargo avvistato. Gli ultimi metri di salita li abbiamo fatti sui sassi scivolosi, benedicendo gli scarponi che indossavamo ai piedi. E finalmente è apparso davanti a noi il Cerbaiolo: un eremo costruito su uno sperone calcareo, con affaccio mozzafiato sulla Valtiberina e il lago di Montedoglio, tra Toscana, Marche ed Emilia-Romagna.
La sua chiesetta e il campanile in pietra sembrano sbucare dalla montagna, fatti della stessa materia chiara. Qua e là, alcune piante di rose rosse ingentiliscono le mura grigie. Ai piedi, un pratino verdeggiante si è imposto sul selciato. L’eremo resiste lì dal 723 d.C., salvo una lunga pausa successiva al 28 agosto 1944, quando i tedeschi in ritirata fecero saltare Pieve Santo Stefano e parte del Cerbaiolo, per non lasciare in mano alleata le munizioni ammassate qui.
Dicevo che siamo saliti in tre. Siamo tre giornalisti, armati di macchine fotografiche, microfoni, un cavalletto e tanta curiosità. Non abbiamo nessuna notizia di cronaca da raccogliere. Ci spinge il desiderio di condividere un’avventura e la curiosità di scoprire la storia di questo luogo e l’eremita che lo abita. Imbocchiamo l’entrata che porta al chiostro. È piccolo, ben curato, con al centro un grande pozzo carico di gerani. Non c’è nessuno. Sulle pareti figura la regola di san Benedetto (Ora, lege et labora). Ci muoviamo tra gli archi con la sensazione di essere entrati in casa altrui senza aver chiesto il permesso. Finalmente, accanto ad una porticina individuiamo un campanello. Lo suoniamo. Dopo pochi minuti si affaccia don Claudio Cicillo, oblato camaldolese, che ci dà il benvenuto con una decisa stretta di mano. «Accomodatevi – suggerisce –. Vi va del caffè e un po’ di dolce?». Ci indica la stanza dietro alle nostre spalle, che doveva essere il refettorio. Deponiamo i nostri apparecchi e tratteniamo la fretta di sapere, arrendendoci a quella semplice ospitalità. Seduti al lungo tavolo, chiacchieriamo degustando le nostre abbondanti porzioni di torta al cioccolato e del buon caffè, circondati da affreschi che dovevano essere stati coloratissimi. Lui ci dice che è così che gli piace accogliere i pellegrini di passaggio che percorrono la Via di Francesco, il cammino che unisce La Verna ad Assisi attraverso i luoghi sacri del francescanesimo.
Così comincia il suo racconto. «C’è un detto che dice: “Chi ha visto La Verna e non ha visto il Cerbaiolo, ha visto la mamma e non il figliolo”. Ma è storicamente errato, nel senso che il Cerbaiolo ha 500 anni più de La Verna e 300 in più di Camaldoli. Fu costruito dal duca di Montedoglio per sua figlia e poi, nel 726, venne donato ai benedettini che lo ingrandirono». Milletrecento anni di storia da raccontare sono tanti. Nel 1216 la famiglia Mercati di Pieve Santo Stefano, divenuta proprietaria di questo luogo 70 anni prima, lo donò a Francesco d’Assisi, che passava da queste parti andando a trascorrere la Quaresima a La Verna. Il santo installò qui una sua comunità già a partire dal 1218.
«Oltre a Francesco, il personaggio più importante che Cerbaiolo ha ospitato è stato Antonio da Padova, che ha scritto qui i Decretalia di papa Gregorio IX e parte dei Sermones», ricorda. I francescani lasciarono Cerbaiolo nel 1783 quando, su richiesta del vescovo di Città di Castello, scesero a Pieve Santo Stefano. «Dopo le bombe tedesche, l’Eremo è rimasto chiuso fino al 1964, quando è salita quassù Chiara Barboni».
A questo punto il racconto di don Claudio si addolcisce e acquista tenerezza, come quando si parla di una persona che non c’è più ma alla quale si è voluto molto bene. «Chiara era originaria di Ravenna, aveva 39 anni quando è venuta qui. Era una consacrata di un istituto secolare. Arrivò con altre tre sorelle e cominciarono a rimettere in piedi l’eremo. Poi però rimase sola, si fa per dire, con 300 capre, 60 gatti, due cani e un allocco in cucina. Era una donna di Dio che custodiva il silenzio, ma anche capace di incontri e parole che erano gestate, profondamente unita al Creato».
Don Claudio è arrivato quassù nel 2019, 9 anni dopo la morte di Chiara, che ha conosciuto personalmente. Oggi, con l’aiuto di quelli che lui chiama i suoi “novizi”, pensionate e pensionati di Pieve, si prende cura dell’eremo e lo tiene vivo. «Prima di venire qui esercitavo il mio
ministero in strada, insieme al Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, Libera Rimini e l’Osservatorio Antimafia. Ma ad un certo punto ho sentito il richiamo a tornare a me stesso, al silenzio, al vivere la dimensione verticale della Croce, tornando a risentire la voce di Dio».
E don Claudio ce l’ha un sogno sul Cerbaiolo? «Che Cerbaiolo resti un eremo. E che conservi la sua vocazione di solitudine, silenzio e meraviglia. Quella che la gente prova venendo quassù. Credo che lo stupore sia il portico della preghiera. Spero che questo silenzio possa aiutare gli uomini di oggi a risentire la voce di Dio, a rientrare in sé stessi e a riappropriarsi delle loro vite, che possa essere un grembo in cui la Vita parla alla vita».
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