C’era una volta un castello, anzi tre
Il treno diretto a Benevento su cui sto viaggiando s’è fermato alla stazione di Mercato San Severino. Strano nome per una città, dovuto a chissà quali trascorsi storici. Oltre il finestrino lo sguardo è attirato da una verdeggiante collina che sovrasta l’abitato, sulla cui cima biancheggiano – visione di bellezza – i ruderi di un castello di insolita vastità. Sì bellezza: perché ciò che è antico e si disfa, pietra che ritorna alla pietra, si armonizza sempre con la natura circostante, a differenza dei moderni “ruderi” in cemento delle costruzioni mai terminate che sfigurano tante località della Penisola. Il treno riparte. Finché posso scruto quel colle fortificato, rammaricato di non poterlo visitare. Tanto basta perché, in seguito, mi documenti sul sito.
Seconda architettura militare in Italia per estensione (occupa una superficie totale di 157.500 metri quadrati) e uno dei più importanti castelli medievali del nostro Sud, quello di Mercato San Severino caratterizza la collina Parco, dove si è, in certo modo, triplicato in seguito alle dominazioni succedutesi in questa zona del Salernitano. Composto da un primo nucleo longobardo, da un secondo normanno e infine da uno svevo-angioino-aragonese, ha tre cinte murarie, una per ogni periodo, rimaste pressoché intatte.
Il maniero, risalente al X secolo, appartenne ai potenti Sanseverino, una delle più illustri casate d’Italia, che si vantava di discendere dai normanni e specie tra Campania, Basilicata, Puglia e Calabria ne possedeva di feudi, contee, marchesati, ducati e principati. Fu poi abbandonato dopo la fallita rivolta di Ferdinando Sanseverino contro Carlo V di Spagna e il passaggio al demanio spagnolo di tutti i beni di famiglia.
Scavi recenti hanno messo in luce al suo interno resti di officine metallurgiche, sistemi per l’uso di macchine da difesa, ceramiche e monete. Chi s’avventura fin lassù, salendo per un sentiero sgarrupato, scopre il mastio quadrato con la piazza d’armi, il portico d’accesso ad una cisterna ancora oggi funzionante e, adiacente ad essa, ciò che resta della residenza signorile, della chiesa duecentesca, un tempo ricca di affreschi, e dell’annessa cripta. Tra le torri cilindriche sono visibili, in parte ancora conservati, i camminamenti di ronda con i merli quadrati, cosiddetti guelfi. E guelfi furono i Sanseverino, che fin dal XII secolo avevano parteggiato quasi sempre per il papato.
Posso solo immaginare la visuale su tutta la valle sottostante che si gode da quel sito elevato (dicono che durante le giornate limpide si riesce a scorgere anche il Vesuvio). Purtroppo, a sentire chi ci è stato per qualche scampagnata, non è valorizzato come meriterebbe, senza contare che raggiungerlo non è da tutti. Peccato, perché sarebbe una grande risorsa per la città di cui è simbolo ed un pezzo d’Italia di cui andar fieri!
E il nome “Mercato”? All’epoca del principato longobardo di Salerno, qui, o comunque nelle vicinanze, esisteva un gastaldato (circoscrizione amministrativa governata da un funzionario regio, il gastaldo) denominato Rota da rotaticum, il tributo riscosso sulle vie romane. Era infatti passaggio obbligato tra il lato settentrionale dell’agro nocerino-sarnese e i primi contrafforti dell’Avellinese.
Erede di questa importante stazione di pedaggio, conquistata intorno al 640 dai longobardi di Arechi I, Mercato si chiamò così perché al tempo dei normanni (seconda metà del secolo XI) fu sede di empori per il commercio fisso e, grazie alla sua posizione strategica di collegamento con i ducati di Napoli e di Benevento, si affermò come piazza molto ambita, frequentata perfino da mercanti genovesi e fiorentini. Le merci trattate comprendevano granaglie e alimenti vari, vino, pelli, sete, panni di lana, oro e rame. A una attività mercantile così fiorente si aggiungeva, nel circondario, il fiorire di ogni tipo di attività artigianale; famosi per la loro perizia, i maestri artigiani di Mercato erano richiesti non solo nel feudo dei Sanseverino, ma anche a Salerno, Napoli, Gaeta, Vicenza, fino alle province lombarde.
Il castello è legato, fra l’altro, ad un episodio degli ultimi anni di Tommaso d’Aquino. Il 6 dicembre 1273, a Napoli, nel convento di San Domenico Maggiore dove viveva, il santo mentre stava celebrando messa fece un’esperienza mistica che gli cambiò la vita: interruppe al terzo tomo il capolavoro che andava scrivendo, la Summa theologica, né volle più proseguire. Solo dietro insistenza del suo devoto collaboratore fra’ Reginaldo confidò: «Non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato». Anche il suo fisico ne risentì.
Per cambiare ambiente e staccarsi dai suoi studi e libri, in compagnia di fra’ Reginaldo, Tommaso si recò al castello di Mercato dove viveva la sorella Teodora, sposata con Ruggero Sanseverino. Ma nei tre giorni di visita apparve assente, quasi non proferì parola, nonostante le cure affettuose di lei. Ritornò quindi a Napoli, restandovi per qualche settimana ammalato. Intanto, dalla Francia, papa Gregorio X, ignaro delle sue condizioni di salute, lo invitava al Concilio di Lione, indetto per promuovere l’unione fra Roma e l’Oriente. Il santo obbedì, ma a viaggio iniziato, sentendo approssimarsi la fine, si fece portare nell’abbazia di Fossanova. E lì, ospite dei monaci cistercensi, morì il 7 marzo 1274. Aveva solo 49 anni.
Quando ripenso al triplice castello appena intravisto dal treno, non posso non associarlo al passaggio del grande teologo e dottore della Chiesa: malato a vederlo dall’esterno, ma interiormente già assorto nella visione paradisiaca.
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