C’era una volta il documentario

Storie vere e i grandi problemi con cui l’essere umano da sempre si confronta. Al Festival di Venezia, da qualche anno si è imposto un nuovo genere. In quest'edizione, Spira mirabilis, sull'immortalità, di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti
cinema Venezia

C’era una volta il documentario, quello con le piante, gli animali esotici e la voce narrante. In ogni caso, un susseguirsi di riprese della realtà accostate unicamente, o quasi, per documentare fatti. Questo in generale, al di là di tante preziose e nobilissime eccezioni, poco familiari ai più e sulle quali non c’è tempo, in questa sede, di soffermarsi come si dovrebbe. Giusto qualche nome dal mazzo: il russo Vertov, l’americano Wiseman, gli italiani Vittorio De Seta e Luigi Di Gianni. Roba fantastica, studiata nelle università e promossa dalla critica, ma non materia, nel Paese del dopoguerra, da riempire le sale di un mondo (ancora) contadino che al cinema voleva sognare, meravigliarsi e divertirsi.

 

C’era una volta il documentario, timido e silenzioso, e poi ci stava la grande finzione con le sceneggiature coinvolgenti e le spettacolari sequenze. Coi grandi attori e le comparse, i movimenti di macchina e gli effetti speciali. Fino a che il documentario, timido e silenzioso ma anche tosto e intelligente, è intervenuto a rinsavire il cinema dall’ultima delle sue crisi ricorrenti. Zitto zitto, si è andato a prendere il suo spazio – tutt’altro che marginale – nei grandi Festival di cinema e nel dibattito critico. Come? Insegnando che per emozionare e insieme raccontare  – scopo del miglior cinema da sempre – si può adoperare eccome la realtà! Basta fonderla con un’idea di cinema forte, con una regìa funzionale al coinvolgimento, che sappia adoperare bene il montaggio, la luce, la musica, la pittura e la letteratura. Più in generale che sappia sprigionare al massimo la creatività e la fantasia dell’essere umano. 

Documentario inteso come arte del narrare per immagini, ed ecco allora che mentre le serie TV hanno cominciato, con un’esponenziale crescita qualitativa, a mandare in crisi il film “classico”, e mentre l’abitudine alla tecnologia audiovisiva digitale ha modificato sempre di più le aspettative e i gusti del pubblico, il documentario, con la sua libertà di confinare, sperimentare e contaminarsi con qualsiasi forma artistica, è diventato il nuovo cinema più interessante che ci sia.

 

Poi ci sono i fatti, le date, gli eventi che certificano un processo avvenuto, un cambiamento, un passaggio. Una di queste è il 7 settembre del 2013, quando il documentario Sacro GRA di Gianfranco Rosi ha vinto il Leone d’Oro a Venezia. Per la prima volta, al Lido si premiava un film di non finzione, e bisognerebbe chiedere a Bernardo Bertolucci – presidente della giuria in quell’occasione – se il riconoscimento sia andato più al valore artistico del film o a quello simbolico. Bertolucci dovrebbe scavare nel suo inconscio per rispondere con sincerità a questa domanda, fatto che sta che dà quel tardo pomeriggio estivo, il documentario, o cinema del reale, o cinema di non finzione (le sfumature sono tante come le riflessioni in corso sul tema) non ha più smesso di ben figurare nei più importanti Festival del mondo. Il protagonista di Sacro Gra è il Grande raccordo anulare di Roma, più nel dettaglio lo sono le vite che attorno a questo spazio abitano, aggrappate al loro spazio minuto, invisibili e poetiche. Fu uno scoppio, un giorno zero, un incoraggiamento per tanti, un nuovo corso ufficialmente partito, seguito immediatamente dal Festival di Roma, che pochi mesi dopo premiò un film in parte di finzione e in parte documentario: Tir dell’italiano Alberto Fasulo, i cui limiti espressivi rappresentano ancora di più il segnale di un cambiamento di vento, la sete di un cinema fresco e sorprendente. Sia chiaro, di documentari bellissimi, sempre più “cinematografici” e autoriali, ce ne erano già prima di Sacro GRA, per un processo che è iniziato almeno da dieci quindici anni, e se vogliamo dirla tutta, il cinema sin dalle sue origini si è diviso subito tra documentario e fantasia: i Lumiere da una parte, col treno che arriva e il tubo che spruzza, e Meliès dall’altra, col suo viaggio sulla Luna. Certo, ma una simile golden age non si era mai vista, e tanti premi in Festival fondamentali (e persino popolari come quello di Roma) significano molto.

 

La linea tracciata passa per il Festival di Locarno 2015, dove in concorso è stato presentato con grande successo Bella e perduta di Pietro Marcello (altro misto di realtà e finzione) e per lo scorso Festival del cinema di Berlino, dove il potentissimo Fuocoammare dello stesso Gianfranco Rosi (girato tutto a Lampedusa) si è portato a casa l’Orso d’oro come miglior film. La stessa domanda fatta per Sacro GRA ha qui una risposta assai più semplice: il premio spetta tutto al valore espressivo dell’opera, alla sua capacità di raccontare con forza assoluta un tema delicato ed enorme come quello delle grandi e dolorose migrazioni umane contemporanee.

 

L’ultimo segno di una crescita di prestigio del documentario d’autore è rappresentata dalla presenza al prossimo Festival di Venezia (ovviamente in concorso per il Leone d’Oro) dell’ultimo documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Si intitola Spira Mirabilis e parla di un tema gigantesco e immateriale: l’immortalità! Solo questo basta a spiegare quali siano le ambizioni e il terreno in cui sa muoversi il documentario contemporaneo. Come sappia, mescolando storie vere con i segreti del cinema, raccontare non solo la realtà più delicata, ma anche i grandi problemi con cui l’essere umano da sempre si confronta.

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