C’era una volta a Roma Trilussa
Ci sono uomini che segnano un epoca con la loro vita e le loro opere, ma poi cadono in disgrazia, a ragione e qualche volta a torto. Tale ingiusta sorte è toccata al poeta romano Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa, considerato un poeta di valore nella prima metà del Novecento, e messo da parte dalla critica del dopoguerra. Anche la monumentale Storia della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, in distribuzione con l’Espresso, gli dedica solo 20 righe e con un giudizio non sempre positivo. Si parla di un poeta che ha accompagnato con la sua vena satirica mezzo secolo di vita italiana, ma si aggiunge anche subito che se ci fu successo presso il pubblico borghese lo si doveva essenzialmente ad un sano buon senso e al qualunquismo dell’autore, le cui favole di animali riconducevano, sì, a modelli illustri, ma sempre entro confini dimessi e feriali. Eppure non c’è stata antologia scolastica che non abbia riportato qualche sua poesia e non c’è ragazzo che non si sia incantato dinanzi a qualche suo verso in romanesco o nell’ascoltare i suoi animali parlanti. Da ricordare che Tutte le poesie, l’opera omnia del poeta romano, è stato uno dei più grandi successi editoriali degli anni Cinquanta, a testimonianza della grande diffusione di una voce poetica che aveva saputo toccare con arguzia e ironia le corde interiori del pubblico colto e del popolo. Fra gli estimatori di Trilussa c’erano uomini di cultura e artisti e tra questi la grande attrice Anna Magnani, che strinse con il poeta una personale amicizia e negli ultimi anni più volte volle incontrarlo. A far giustizia, su quel qualunquismo che lascia intuire una personalità debole e incapace di scelte e di vigore morale, è Luca Desiato, che dopo una accurata ricerca storica e letteraria, si è calato nei panni del poeta, e ci consegna un’autobiografia scritta da Trilussa nell’ultimo anno della sua vita. C’era una volta a Roma Trilussa (Mondadori) è una lunga lettera-confessione del poeta al suo editore Arnoldo Mondadori, consegnata nelle mani della fedele governante Rosa Tomei che, a mano a mano che la stesura va avanti, non si trattiene dal riportare in quelle pagine qualche suo perspicace commento. Ne emerge la figura a tutto tondo di un uomo dall’apparenza felice e svagata, ma in realtà profondamente inquieto e reso vulnerabile anche da una vita sentimentale poco appagante. Il bello della letteratura è la mimesi – confessa Desiato in un intervista -. L’autore può far parlare, con voce verosimile, un imperatore o una cortigiana, un bambino o un poeta. Dare loro una forma e un volto. Non importa che siano vissuti. L’importanza è che vivano raccontati sulla pagine. E Desiato, magistralmente, così come ha fatto per altri grandi personaggi dell’arte e della storia, Galileo, Caravaggio, l’imperatore Giuliano, ci presenta un uomo appassio- nato della vita e della poesia, innamorato degli animali più umani degli uomini, con i suoi limiti ma anche con le sue forti intuizioni, il suo rifiuto dell’ipocrisia, delle sfacciate furberie e della slealtà. La poesia di Trilussa, infatti, anche quella più scanzonata, è sempre velata di malinconia, segno della sua sofferenza per un mondo sconvolto dalle guerre e dalla mancanza di solidarietà. Non a caso nell’ultimo capitolo del libro, allorquando sente vicina la morte, il poeta si congeda con queste parole dai suoi animali, molti dei quali ha imbalsamato: Ho dovuto scrivere allegro, ognisempre la battuta pronta, un dovere far ridere o sorridere, e se parlavo delle stelle le dovevo dire scherzose e brillarelle, mentre la verità è un’altra: giù da noi l’acciaccapisto de la vita e, sopra, la mala grazia. So le stelle che spùteno sur monno. Trilussa, che ha dovuto vivere le due grandi guerre, non si è risparmiato di additare quei flagelli umani come le più grandi calamità, le più grandi disgrazie. In entrambe egli si schierò con i non belligeranti. Un uomo in superficie tranquillo – lo definisce Claudio Toscani -… un esponente delle contraddizioni e delle crisi della società italiana, e direi, europea, tra l’Otto e il Novecento. Un cavallo di razza, un signore malinconico, un vecchio zio che scuote la testa e racconta. Aveva incontrato il Duce, e non aveva mai aderito a manifesti culturali o politici, e per tutto questo dovette pagare le conseguenze. Ma fu anche l’uomo che non esitò a denunciare l’inutilità della guerra e a paragonare proprio il Duce a quel pifferaio della favola che aveva trasportato, dietro la sua musica, tutti i topi nel mare. Il più grande riconoscimento della nazione gli fu tributato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, il 2 dicembre 1950, venti giorni prima della sua morte, con la nomina a senatore a vita.