Cento giorni di proteste
Nel 2011 ebbi occasione di presentare un progetto di formazione per i leader della società civile presso una università pubblica in Nicaragua. Di fronte al rettore, ai suoi collaboratori, decani e direttori di carriera, segretari accademici nell’esporre il progetto, feci leva sulla necessità di formare persone e imprenditori alla luce di un paradigma economico capace di assumere la giustizia sociale e l’eguaglianza tra le finalità principali dell’economia. Conclusa la breve esposizione, mi disposi al dialogo con i presenti seduti attorno al lungo tavolo a un estremo del quale ero al fianco del rettore. Ci fu un interminabile silenzio, un po’ imbarazzante, rotto da qualche colpo di tosse e dal ronzio dell’aria condizionata, indispensabile per sopportare il caldo umido e sfiancante che regna sovrano a Managua tutto l’anno. Finché prese la parola uno dei membri dello staff. Non il rettore, nessun decano, ma un funzionario che fece un panegirico che mostrava le sintonie tra il progetto sandinista del governo e la nostra proposta. A partire da quel momento, quasi fosse stato dato il “la”, cominciarono ad apparire le positive impressioni e le riflessioni del resto dei presenti, rettore compreso. Tornando in albergo, commentai al docente che mi accompagnava, la mia impressione di essermi trovato di fronte a una specie di “commissario politico”. Questi mi guardò e col tono di chi desidera non continuare sul tema e mi disse: «Benvenuto in Nicaragua».
Erano gli anni in cui questo piccolo Paese si presentava alla regione come un isola di stabilità, senza problemi di sicurezza come i suoi vicini, Guatemala, El Salvador e Honduras sconvolti dalla violenza, con una economia in crescita che includeva il Nicaragua tra le mete turistiche, nonostante si avvertisse – come accaduto a me – il tono autoritario della gestione, anche quella economica. In quasi 12 anni di governi retti dall’ex guerrigliero Daniel Ortega, oggi diventato leader unico e indiscutibile del Paese, gestione estesa alla consorte, Rosario Murillo, che è vicepresidente, si sono accumulate varie tensioni interne. Gli studenti avvertivano il peso asfissiante dell’Unione nazionale studentesca di filiazione orteghista. A livello sociale cominciava a stancare il fatto che per accedere a programmi di politiche sociali bisognava dimostrare di essere iscritti al partito di governo, mentre gli impiegati pubblici dovevano mostrare di essere entusiasti e ferventi devoti delle direttive sandiniste per ottenere permessi o facilitazioni. La rottura del poeta, sacerdote ed ex ministro Ernesto Cardenal con Ortega, fin dal 1994, la sua scesa in campo con l’idea di recuperare lo spirito rivoluzionario sandinista iniziale era già un avviso di scricchiolii messi sotto silenzio dai voti che hanno consentito al regime di avanzare, ma in mezzo a sempre nuovi dubbi. Fino all’apparizione più recente del faraonico progetto di un canale alternativo a quello di Panama, la cui costruzione è stata concessa a un imprenditore cinese in odore di corruzione.
Il Nicaragua di Ortega continuava vento in poppa, si sarebbe detto, fino alle ultime elezioni, vinte nel 2016 con lo slogan che inneggia a un Paese “cristiano, socialista e solidale”. Ad aprile, l’iniziativa di riformare il sistema previdenziale con l’autoritarismo di sempre, si direbbe che fu la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché d’allora in avanti le cose hanno preso un’altra piega, o forse hanno mostrato quella che hanno sempre avuto. Le forze dell’ordine hanno represso con ferocia le manifestazioni prima studentesche poi trasformate in scioperi generali, utilizzando cecchini che hanno preso a bersaglio le masse di manifestanti. Gruppi di fedeli al governo in assetto di forze para-poliziesche hanno attaccato uomini, donne, bambini, hanno ucciso e ferito. In questi poco più di cento giorni di scontri i morti sono circa 300, centinaia i feriti. La Chiesa, convocata da Ortega come ispiratrice di un processo di dialogo, è stata a suo volta attaccata senza pudori: vescovi e sacerdoti aggrediti, chiese danneggiate, suppellettili distrutti e profanazioni senza scrupolo alcuno. Dall’oasi di pace siamo passati a una grave situazione di stallo, nella quale si reagisce con esasperazione all’autoritarismo e la violenza indiscriminata. A Masaya, non lontana da Managua, si resiste in strada con barricate al tentativo del governo di riprendere il controllo della città. Scioperi e proteste sono all’ordine del giorno, barricate, vie di comunicazione interrotte con picchetti.
La società civile confluita attorno all’Alianza Civica ormai esige, quale conditio sine qua non, che Ortega rinunci e che siano convocate elezioni anticipate per avanzare nel dialogo. Il presidente che in un primo momento si era detto disposto a negoziare la pace sociale ha indurito via via la mano e non è per niente disposto a rinunciare. È difficile prevedere una evoluzione futura di tale situazione, almeno finché non prevalga il buon senso e cessi la violenza che, è bene dirlo, nel 90% dei casi ha come vittime i manifestanti. Si attende un risposta del governo al quale i vescovi hanno chiesto di chiarire se Ortega è o no disposto al dialogo. Nel frattempo, non si vedono spiragli di luce in questo panorama incerto che ha trasformato il sogno sandinista in una lotta accanita per il potere.