Censura in Oriente: togliamo bikini e tattoo?
Arrivo in albergo, in una località sulla costa vietnamita, mi stendo sul letto stanco per gli impegni e inizio a fare zapping sui canali (in pratica passo tutti i 60 canali disponibili). Constato ancora una volta l’enorme differenza tra i canali locali e quelli esteri, principalmente dal Nord America: una differenza stridente che non può passare inosservata. Si passa in effetti da programmi distensivi di musica, storie locali, varietà in lingua locale e anche in inglese prodotti con un’ottima qualità, a scene di film di palese «arroganza occidentale», come dicono qui. Poi consumo di alcool, protagonisti che puntualmente fumano sigarette, scene di violenza domestica e non solo, con quant’altro urta le culture locali. Due mondi e due modi di concepire la vita diversi: diciamo due modi di proporre alla società modelli di vita e di sviluppo. Da una parte una certa serenità e un certo pudore, dall’altra il conflitto, la competizione, l’effimero esasperato.
Meng Jing e Zen Soo, due giornaliste del South China Morning Post, hanno trattato l’argomento in queste ultime settimana, continuando un dibattito assai acceso nella regione, che rimbalza sul web e che coinvolge i maggiori social media: la nostra privacy è tutelata nel web? Oppure qualcuno “legge” tutto quanto postiamo, e “ci cataloga”, ci raggruppa in grandi gruppi d’interesse o di pericolosità? Lo sappiamo, il tema è gravissimo in epoca di algoritmi, e la vicenda dei Cambridge Analytics è a suo modo terrorizzante: i nostri profili vengono non solo registrati ma venduti. E si dice, con cognizione di causa, che con queste “schede” Trump abbia vinto le elezioni, per giunta con dati provenienti da un suo “nemico” come Mark Zuckerberg.
Tempo fa, ho avuto il piacere di sedermi a cena con una giovane che, per professione, passa in media 10 ore sui social per… “leggerci”, appunto. «A volte devo fare gli straordinari e le ore di lavoro arrivano anche a 20 al giorno», mi diceva. «Personalmente uso questo telefonino», e mi mostra un vecchio modello d’altri tempi. «I miei colleghi vogliono solo conoscere la tua vita privata: non hai niente da nascondere e non fai nulla di male, perciò stai sereno», mi diceva alla fine della cena. Dopo qualche settimana, i suoi colleghi chiesero di incontrarmi, per il lavoro che svolgo, e abbiamo avuto una bella chiacchierata amichevole. Davvero sapevano molto di me e ciò non mi dispiacque. Siamo spiati, tutti noi, attraverso le nostre email e i nostri smartphone. Talvolta anche se sono spenti.
I Paesi emergenti, con culture diverse dalle nostre, hanno però da ridire su queste pratiche, secondo Meng Jing e Zen Soo, così come hanno da ridire sul modello di vita che gli occidentali impongono con i loro film e i loro programmi televisivi esportati. Pertanto, alcuni governi cercano di “correggere” i molti messaggi che i media occidentali trasmettono all’audience asiatico. Per esempio i guadagni dei giocatori di calcio in Cina hanno subito un controllo per non raggiungere cifre “immorali”, come è stato annunciato; i compensi di artisti e cantanti e il loro stile di vita parimenti vengono limitati affinché non influenzino troppo la massa della gente. Il Partito comunista cinese ha da ridire e modifica i messaggi che questi personaggi lanciano a una società di un miliardo e 400 milioni di persone. Come anche i messaggi promozionali, le televendite in bikini e tutto ciò non sia “conforme” alla cultura locale che non scopre il corpo per vendere prodotti: tutto ciò sta subendo in Cina una censura non facile da applicare per il grande numero di utenti. Ma esiste, si conosce e si andrà sempre più verso un certo “controllo”. Il governo cinese non intende lasciar in pasto all’Occidente valori culturali millenari.
Il dibattito si è particolarmente acceso in questi ultimi mesi anche in relazione alla scoperta che il governo del Myanmar ha usato, per anni, i social media con messaggi ben preparati per influenzare l’opinione pubblica sulla “giusta” pulizia etnica contro i rohingya, concretizzatasi poi nell’agosto del 2017. Il picco della discussione sulla libertà di Internet da queste parti ha raggiunto il suo culmine il mese scorso, quando l’esecutore della strage in Nuova Zelanda alle due moschee di Christchurch ha posto in Rete il massacro live, come tutti sappiamo. Ma non è solo la Cina ad agire: l’Australia, ad esempio, ha varato una legge che punisce le compagnie di social media che non tolgono prontamente queste scene violente dalle loro pagine web. Da ora in poi, secondo la nuova legge australiana, gli impiegati delle ditte di social media possono incorrere in condanne fino a tre anni di reclusione e i loro boss possono essere multati fino al 10% del guadagno annuale se non ottemperano alla legge. L’Inghilterra e Singapore sembra stiano seguendo l’esempio dell’Australia.
Aram Sinnreich, professore associato dell’American University School of Communication, riferendosi al filtro su Internet adottato in Cina, afferma che «è dispotico, ma penso che il metodo che regola internet in Cina sia il futuro». Bloccare messaggi dai social media stranieri che sono politicamente sensibili oppure che disturbano l’ordine pubblico diventerà, sempre di più, una pratica anche in Occidente. In Oriente, tutto questo, è già all’ordine del giorno.
Il dibattito è aperto. I limiti della libertà sono in discussione, e taluni ne approfittano per i loro interessi politici. La censura è vecchia come il mondo, ma nell’era digitale porta nuovi problemi. In realtà quello che manca per un sistema transnazionale come la Rete è una governance condivisa che possa portare a rispettare la libertà individuale così come le culture locali, una governance che impedisca a privati di diventare padroni di miliardi di coscienze e ai governi di sfruttare la Rete per le loro mire politiche dittatoriali. La sfida è aperta, e va raccolta quanto prima.