Celine Dione e Roger Federer, l’accettazione del limite
Ci sono due documentari, entrambi coinvolgenti, ,da qualche giorno su Prime Video. Sono diversi, ma sono entrambi più sinceri e introspettivi che smaccatamente celebrativi. Soprattutto hanno una cosa in comune: la vita umana fotografata in un momento difficile, delicato. Raccontano di quando il corpo che ci è stato donato (un corpo che per i due protagonisti narrati possiede qualità eccezionali) smette di essere un potente alleato, un prezioso strumento, costringendoci, magari dopo averci resi speciali, amati e straordinari (come è appunto il caso dei soggetti al centro di questa riflessione), al passaggio dentro un faticoso piano B. Più o meno drammatico e difficile.
Le due storie al centro di questi bei documentari appartengono a star di livello internazionale, a due numeri uno nel proprio campo. Il primo è sulla cantante Celine Dion, in particolare sulla malattia che ha ostacolato la sua grande carriera: una sindrome rara che paralizza i muscoli. Si intitola Io sono Celine Dion e non risparmia i momenti di più profonda sofferenza della cantante canadese. Mostra la patologia in tutta la sua durezza, sia con le riflessioni dell’artista che con sequenze anche piuttosto forti, in particolare verso la fine del film, col corpo di Celine Dion completamente bloccato.
Il secondo documentario è sul grande tennista Roger Federer, in particolare sui giorni dell’addio al professionismo, per problemi fisici relativi (soprattutto) ad un ginocchio, oltreché all’età. Sono gli ultimi dodici giorni (come recita anche il sottotitolo) del suo viaggio memorabile nel tennis. È la last dance di un gigantesco campione, vissuta con un misto complesso di sentimenti. Non tanto il ripasso della sua immensa carriera, dunque, ma il momento dell’impatto con l’ignoto, della discesa dal palco, dello stop ad emozioni fortemente positive vissute di continuo per una quantità enorme di anni.
Non vivono la stessa condizione, Celine Dion e Roger Federer, sia chiaro: il viaggio della donna, di una creatura dalla voce straordinaria, è certamente più complicato e doloroso di quello del grande sportivo svizzero, ma in entrambi i film passa il tema dell’accettazione della caducità del corpo umano, del vento incontrollabile, misterioso e faticoso, che complica il nostro stare al mondo. L’arrivo di una parte scomoda, indesiderata, in salita, della vita. Se nel secondo documentario possiamo parlare di (relativa) normalità, nel senso che a ogni essere umano capita di invecchiare e di passare a una stagione nuova che comporta la ricerca coatta di un altro assetto personale, nel primo entriamo nel campo della malattia, di ciò che arriva come un fulmine, un terremoto, a cambiare d’improvviso le cose, complicandole terribilmente. Certamente, però, per entrambi c’è stato un quotidiano glorioso e appassionato, più o meno interrotto, rallentato, quantomeno modificato dallo scorrere del tempo.
È interessante, allora, andare a vedere come entrambi, Celine e Roger, affrontano questo momento. Lo fanno con l’energia e la sapienza dimostrate al loro pubblico, con ragionamento e cuore. In entrambi ci sono gli affetti familiari a sostenere, ad aprire il sentiero. Per il tennista la moglie Mirka e i tre figli, oltre all’amicizia profonda, allegra, rara e bellissima, con il rivale Nadal. Per Celine Dion c’è l’essere cresciuta in una famiglia unita e numerosa (erano 14 figli) pregna di vitalità ed armonia. Lei dice, a un certo punto del racconto/confessione, dopo aver mostrato con quanta dignità e tenacia, con quale spirito sanamente combattivo, affronti la sua nuova condizione: «Se oggi sono quello che sono, lo devo alla mia famiglia, il percorso non l’ho fatto da sola».
Una resilienza sostenuta dall’amore nel quale si è formata umanamente, che le fa ribadire la grande voglia di esserci e di vivere la sua grande passione: il canto. Nonostante tutto, oltre ogni difficoltà. Anche con un piano b o c, spiega prima di aggiungere: «Se non posso correre camminerò, se non posso camminare striscerò, ma non mi fermerò». C’è la vita che risponde all’avversità, all’imperfezione, all’ingiustizia, nelle sue parole, c’è la forza insita nell’esistenza umana. Ci sono quelle risorse intime e potenti che ci fanno replicare alla sofferenza e alla necessità di cambiamento. Ci sono, in questi due interessanti lavori, i temi della passione che rimane, che sostiene nei vicoli scuri. Ci sono l’energia dell’arte e dello sport, le relazioni, il senso di appartenenza a un mondo che si è contribuito a costruire, c’è la consapevolezza di aver emozionato, offerto il proprio talento per la gioia altrui. Ci sono cose belle che una malattia o l’obbligo di attaccare al chiodo una racchetta, non possono sconfiggere, cancellare, indebolire.
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