C’è un limite alla disponibilità del proprio corpo
Parlare di paternità e maternità oggi richiede necessariamente una riflessione sulla complessità, una delle questioni che più ci coinvolgono in questa epoca in cui sembra che non ci siano più certezze, né punti di riferimento valoriali degni di essere vissuti: la denatalità dei Paesi occidentali e industrializzati è un fatto ormai accertato, l’Italia è uno dei Paesi in cui si nasce meno al mondo.
Le cause sono molteplici, tra esse l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro con la ricerca di una gravidanza dopo i 35 anni e l’aumento della sterilità sia maschile che femminile. A questa domanda di genitorialità le tecniche di riproduzione medicalmente assistita hanno cercato di rispondere dando a molte coppie sterili la speranza di accogliere il figlio desiderato e atteso.
Tutto questo rappresenta il bene di un figlio accolto, il bene di un padre e di una madre che hanno potuto realizzare il loro sogno? Bisogna stare attenti e leggere bene dentro queste realtà, perché nelle pieghe ci sono storie di persone che, per consentire a qualcuno di essere felice, affrontano sacrifici importanti e mettono a rischio la propria vita.
Questo è ciò che accade quando si parla di maternità surrogata, un tipo particolare di Procreazione assistita che prevede che una donna, esterna alla coppia genitoriale, metta a disposizione il proprio utero (!) per accogliere un embrione fecondato e portare avanti una gravidanza per conto di qualcun altro…
Debbo dire la verità, faccio proprio fatica anche solo a pensare ad una simile situazione. La gravidanza e la maternità sono quanto di più intimo e viscerale una donna possa vivere, sia in senso positivo quando il figlio è voluto e accolto, che in senso negativo quando è inatteso o rifiutato. Immaginare che questa esperienza, che gli psicoanalisti considerano regressiva e ancestrale nei vissuti delle donne, possa diventare oggetto di accordo mercantile, mi sembra assurdo.
Non credo proprio si possano portare a giustificazione discorsi sui diritti individuali, né tantomeno parlare di libero consenso di un individuo adulto. Tutto sembra invece giocarsi a livello di differenza di classe, ancora una volta chi ha i soldi può chiedere ciò che vuole ad un povero che, prima o poi, potrebbe essere costretto a concederlo.
La maternità surrogata ha quattro vittime più o meno consapevoli: i genitori che credono di realizzare il proprio desiderio di genitorialità “acquistando” il figlio come se fosse una merce; la cosiddetta madre surrogata, che per necessità (il 99% di queste donne ha problemi economici) accetta di snaturare la propria identità diventando mera contenitrice; il figlio, che non è pensato e amato per il suo bene, come ogni persona avrebbe diritto di essere, ma è commissionato, prodotto e fatto sviluppare per nove mesi nel corpo di una donna, sua “madre”, con la quale ha un dialogo prima biochimico (fin dalle primissime ore dopo la fecondazione) e poi emotivo, affettivo, di voci e suoni, per poi infine esserne distaccato come se nulla fosse.
È indispensabile riflettere sulla questione del limite. Esiste un limite ai nostri desideri: l’altro e il suo bene deve essere la soglia sacra e invalicabile sulla quale fermarsi. Non si può rivendicare il diritto a un figlio ed anche tra le tecniche che possono facilitare il concepimento bisogna definire quale è il limite.
L’uso strumentale del corpo della donna è, a mio parere, alla stregua della vendita di un organo. Una nuova forma di schiavitù. Non basta avere il loro consenso. C’è un limite alla disponibilità del proprio corpo, è una questione di dignità. Così per il figlio: non è bene questo distacco forzato da colei che lo ha accolto durante la gravidanza, è una frattura esistenziale che si imprime come una ferita nell’animo di questi figli.
È vero, la legislazione di alcuni Paesi ammette la maternità surrogata, ma non credo che questo sia garanzia di ammissibilità, né tantomeno di eticità, come ha affermato recentemente anche il Parlamento europeo. Sappiamo bene che esistono leggi ingiuste e non bisogna aver paura a definirle tali.