Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni

Entrano in scena, quasi imbarazzati, affermando che lo spettacolo non si può fare. Di non essere pronti. Che hanno provato per tanto tempo, ma che mancano degli elementi – e non sanno quali –, per poterlo rappresentare...
©GabrieleZanon

Sono in quattro. Due di loro, inizialmente, sostano ai lati, gli altri avanzano sul proscenio, e si rivolgono al pubblico spiegando le ragioni, cercandole per giustificarsi, mettendo in discussione la possibilità stessa della rappresentazione; e accennando alla storia che avrebbero voluto mettere in scena.

In quel parlare informale, quotidiano, in prima persona, in quel “recitare senza recitare” vicino alla naturalezza,c’è il senso dello spettacolo: la crisi dell’immedesimazione, del personaggio e dell’interprete, dello stesso fare teatro. Della società. Quella di Daria Deflorian e Antonio Taglierini, è un’indagine esistenziale, intima e politica, di una crisi più generale che trae spunto dalle pagine iniziali del romanzo “L’esattore”, del 2011, di Petros Markaris.

Ambientato nel pieno della crisi economica in Grecia, il romanzo si concentra su un fatto di cronaca inventata: la vicenda di quattro anziane donne pensionate, che volontariamente si sono tolte la vita ingoiando barbiturici e vodka, lasciando ad un biglietto scritto le motivazioni dell’insano gesto: «(…) abbiamo capito che siamo di peso allo Stato, ai medici, ai farmacisti e a tutta la società. Quindi, ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio». E lo spettacolo, se di spettacolo si può parlare, prende da quella frase il titolo “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”.

Dall’impossibilità di riprodurre questa storia e di immaginare gli stati d’animo e fisici dei quattro personaggi –e bastano quattro sedie e un tavolo con dei bicchieri e una bottiglia di vodka, le carte d’identità consultate, per parlarne –, pian piano si scivola nel resoconto delle situazioni di lavoro di loro attori durante le prove, delle impressioni da esse scaturite, delle dinamiche relazionali del gruppo, delle tensioni e dei momenti di crisi nati durante, della futilità di azioni e pensieri del vivere quotidiano di ciascuno. E si arriva a parlare della crisi italiana e di quei “suicidi della crisi” che, anche nella nostra realtà, hanno purtroppo trovato una inquietante eco.

La mescolanza e lo sfumare dal privato al pubblico, dalla piccola e insignificante storia di uno qualunque, a quella più intensa e drammatica delle quattro donne, sortisce un effetto di rara modalità interpretativa. Una commistione dissacrante e intima, ironica e fragile, che ridefinisce, in qualche modo, e mette in discussione, oltre alla recitazione, lo stesso stare in scena. Non servono più gli apparati spettacolari. Ad essere mostrati sono i meccanismi teatrali per i temi scelti, senza il bisogno di rappresentarli, anzi mettendo in discussione la possibilità stessa della rappresentazione.

Smontandogli artifici della finzione i quattro straordinari attori – ai due, anche autori, si aggiungono Monica Piseddu e Valentino Villa – riescono a creare un’intensità comunicativa che cresce in emozioni. Ed è bellissima la sequenza finale che inghiotte nel buio oggetti e persone, ricoprendo i primi con un panno nero che li riveste nella forma. Tutto scompare nell’oscurità, come poco prima aveva fatto Tagliarini vestito totalmente di nero fin nel viso e indietreggiando sul fondo. Tutto viene annullato. Rimane solo ciò che abbiamo immaginato. Che abbiamo pensato. Che abbiamo creduto.

Al Palladium di Roma per il Romaeuropa Festival

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