C’è ancora tempo per salvare la vita sulla Terra
“Fate presto!”, titolava il quotidiano economico Il Sole 24 Ore nel novembre 2011 di fronte all’annunciato dissesto finanziario dell’Italia. Dopo 11 anni è, invece, ormai evidente a tutti l’emergenza ambientale che irrompe tra il caldo opprimente dell’estate, i ghiacciai che scompaiono e le piogge torrenziali che mettono a nudo la precarietà idrogeologica del territorio.
Abbiamo ancora tempo per invertire la direzione di marcia verso quella radicale conversione ecologica indicata da Francesco nell’enciclica Laudato si’ del 2015? Rischiamo, noi e il mondo intero, di andare “tutti giù per terra” come termina il girotondo dei bambini o siamo ancora in grado di risollevarci?
Dal 3 al 9 ottobre, Città Nuova ha proposto a livello nazionale una settimana di eventi, incontri e approfondimenti incentrati sulle sfide decisive dell’ecologia integrale, quella cioè che si può realizzare solo coniugando assieme la cura dell’ambiente e la giustizia sociale. Una scelta che informa la vita quotidiana, la cultura e quindi le strutture dell’economia e della politica.
La settimana di Città Nuova arriva a pochi giorni dalle elezioni politiche in una fase intensa contrassegnata dalla formazione delle nuove Camere e il varo del governo che uscirà dal voto del 25 settembre. Un periodo che si annuncia pieno di attese e di tensioni soprattutto con riferimento alla definizione del nuovo bilancio pubblico, la realizzazione del Pnrr imperniato su quella transizione ecologica non più rimandabile ma ostacolata dalle conseguenze della pandemia e dall’insorgere della crisi economica ed energetica collegata al conflitto bellico in corso in Ucraina.
L’aumento dei prezzi della spesa giornaliera e i costi insostenibili delle bollette per tante famiglie ci fanno comprendere l’estrema serietà di questioni finora considerate forse troppo astratte. Per cercare di capire la complessità delle sfide che abbiamo davanti è necessario partire da uno sguardo planetario contrassegnato dal dilemma tra la cooperazione indispensabile per salvare l’esistenza dell’umanità sulla Terra o il conflitto autodistruttivo per accaparrarsi le risorse economiche e naturali. In quest’ottica si pone la grande questione delle fonti energetiche esposta sempre in questo numero della rivista a pag. 34.
La scelta tra accaparramento o condivisione delle risorse
di Maurizio Simoncelli
Innestatasi in una fase di grave cambiamento climatico, la guerra in Ucraina, tra l’altro, ha evidenziato nettamente le interconnessioni tra risorse e conflitti.
La crisi idrica, la desertificazione, il surriscaldamento, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari, il susseguirsi di eventi climatici estremi sono tutti fenomeni connessi all’azione umana che nel corso degli ultimi due secoli ha inciso negativamente sui delicati equilibri naturali, pensando che tutto fosse possibile.
L’uso massiccio delle fonti energetiche fossili (petrolio, carbone, gas) e la lotta anche violenta per possedere tutte le risorse utili a uno sviluppo senza limiti hanno portato nei decenni a un quadro internazionale altamente instabile e pertanto pericoloso.
Per comprenderne le dinamiche e i rischi è opportuno avere un quadro generale delle risorse geolocalizzate. Ad oggi i principali produttori di petrolio sono una decina di Paesi (Usa, Arabia Saudita, Russia, Canada, Cina, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Brasile, Iran e Kuwait), mentre i principali consumatori sono Usa, Cina, India, Giappone e Russia. È abbastanza facile notare che tra i primi 10 produttori troviamo Paesi dell’area mediorientale, territorio che fu in gran parte dell’impero ottomano crollato a seguito della prima guerra mondiale e poi sempre instabile fino ad oggi. Ben diversa la graduatoria dei primi 11 produttori di gas (Usa, Russia, Iran, Cina, Qatar, Canada, Australia, Arabia Saudita, Norvegia e Algeria), che vede le tre superpotenze ai primi posti e la presenza di soli tre Paesi mediorientali.
Tra i primi 10 consumatori ne ritroviamo ben 6 della lista precedente (Usa, Russia, Cina, Iran, Canada, Arabia Saudita, Giappone, Germania, Messico e Regno Unito). Il carbone, utilizzato in oltre 8 mila centrali nel mondo, è ritenuto responsabile di oltre il 45% delle emissioni di gas serra provenienti dai processi di combustione (primi produttori Cina, Usa, India, Australia, Indonesia, primi consumatori Cina, Usa, Russia, India e Giappone).
Il conflitto in Ucraina ha mostrato l’importanza della risorsa energetica usata anche come arma, analogamente a quella alimentare del grano (principali produttori Russia, Usa, Australia, Canada, Ucraina, Francia, Argentina, Germania, Romania e India), che sta avendo duri contraccolpi sulle popolazioni di Stati che lo importano massicciamente (Indonesia, Nigeria, Cina, Turchia, Egitto, Algeria, Italia, Bangladesh, Filippine e Giappone).
Se i Paesi a rischio alimentare sono oltre 50, quelli ritenuti più esposti sono Egitto, Libia, Tunisia, Libano, Turchia, Yemen, Iran e Bangladesh. La fame, connessa ad eventi climatici estremi, spinge le popolazioni a spostarsi altrove, se possono. Ecco dunque massicce migrazioni, generate anche da repressioni e conflitti, che rappresentano un fenomeno rilevante del mondo: l’Unhcr parla di oltre 84 milioni di persone in fuga, accolte per l’86% nei Paesi in via di sviluppo.
Non si combatte solo per il controllo delle risorse energetiche (come sta avvenendo, ad esempio, proprio in Libia) o alimentari, ma anche per altre risorse minerarie importanti come le cosiddette “terre rare”, stimate globalmente tra i 120 e i 150 milioni di tonnellate, dislocate soprattutto in Cina, Russia, Usa, Australia, Brasile, India, Malesia, Thailandia, Vietnam, Canada e Sudafrica.
La Cina, oltre ad esserne il maggior produttore con una quota del 37%, ha concluso diversi contratti con altri Paesi (come Repubblica Democratica del Congo e Kenya, ad esempio) per estrarle in loco, per cui si stima che Pechino di fatto controlli tra l’85 e il 90% del processo di trasformazione in magneti.
Si potrebbero fare numerosi altri esempi di risorse e di spazi terrestri e marittimi per cui i governi si scontrano e si alleano in un gioco senza fine, ma è interessante notare che questa conflittualità predatoria (più o meno latente) è connessa inversamente ad azioni volte a perseguire una transizione ecologica reale.
Gli obiettivi di questo processo dovrebbero essere l’abbandono delle fonti energetiche non rinnovabili (gas, petrolio, carbone), fondate su una centralizzazione produttiva, per passare a quelle rinnovabili (solari, geotermiche, eoliche), spesso decentrabili. I cambiamenti climatici attuali, come è noto, risentono fortemente dell’azione umana che nel corso degli anni ha causato un crescente inquinamento ambientale immettendo nell’atmosfera i residui delle non rinnovabili.
La presente crisi internazionale sta rallentando notevolmente la transizione energetica, processo che, applicato su scala mondiale, avrebbe bisogno di grandi investimenti di capitale, da diversi anni dirottati altrove, anche verso le spese militari che sono passate dai 1.148 miliardi di dollari del 2001 ai 2.006 del 2021. Nonostante gli accordi di Parigi, i capitali mondiali sono ancora restii ad investire in questa nuova prospettiva: infatti, secondo alcune analisi, per una transizione ecologica efficace servirebbero 1.500-2.000 miliardi di dollari all’anno. Oggi, purtroppo, stiamo assistendo prevalentemente a un semplice riassestamento delle linee di rifornimento energetico non rinnovabile, mentre la virata tanto attesa tarda a realizzarsi ma è sempre più non rimandabile.
Il futuro? O sarà sostenibile o non sarà
Letizia Palmisano è giornalista ambientale ed ecoblogger. Autrice, con Matteo Nardi, di “10 idee per salvare il pianeta prima che sparisca il cioccolato”, Città Nuova 2021. www.letiziapalmisano.it
La più grande emergenza globale che la specie umana si sia mai trovata ad affrontare è ora e non è la pandemia bensì i cambiamenti climatici in corso che stanno radicalmente cambiando non solo l’idea che avevamo di futuro ma anche il presente. Per esemplificare con una frase forte quanto a mio parere veritiera: “il futuro o sarà sostenibile, o non (ci) sarà”, quantomeno per la specie umana, potendo la Terra andare benissimo avanti senza di noi come è stato per miliardi di anni.
Diviene quindi necessario che ognuno si attivi per una rivoluzione dei sistemi produttivi – a partire da energia e trasporti – e degli stili di vita laddove essi superino il consumo di risorse annui pro capite messe a disposizione dal pianeta, che ad oggi potrebbero bastare per tutti ma che da circa 50 anni non bastano più alla nostra specie. L’umanità consuma come se avesse a disposizione 1,75 Terre. Se tutti vivessimo come noi italiani, ne servirebbero quasi 3.
La rivoluzione ecologica deve passare per tutti noi: governi, enti pubblici, aziende e cittadini. Le persone – da sole ma ancor meglio insieme in comunità – possono fare tanto. Possono spingere al cambiamento con le proprie scelte come elettori – il pianeta non può votare, tu sì – sia come consumatori nel momento in cui negli acquisti dei prodotti e servizi si soppesi anche l’impatto ambientale di ciò che si decide di comprare. Anche i propri comportamenti possono incidere direttamente sull’impronta ecologica quotidiana di ognuno di noi.
Con Matteo Nardi ho scritto un libro per Città Nuova che vuol essere un compagno di viaggio di chi decida di intraprendere un percorso di transizione ecologica (come va di moda dire oggi) della propria vita quotidiana. Lo stile di vita che adottiamo in casa o al lavoro, come decidiamo di spostarci, il farci influenzare dal marketing, dall’obsolescenza percepita (ovvero la voglia di avere un nuovo modello quando l’apparecchio che abbiamo ancora funziona benissimo), il decidere di uscire dalla zona divano e attivarci in prima persona (per far parte o per fondare quelle comunità che possono essere motore rinnovabile del cambiamento) sono tutte scelte che ognuno di noi può fare ma che, a volte, ci sembrano più difficili o lontane di come invece possono essere in realtà.
Quello per la sostenibilità è un cammino lungo, ma come ogni maratona, si inizia sempre da un primo passo.
Il caso emblematico dell’auto elettrica
Intervista a Francesco Naso, segretario generale di MOTUS-E, la prima associazione in Italia costituita da operatori industriali, filiera automotive, mondo accademico e movimenti di opinione per fare sistema e accelerare il cambiamento verso la mobilità elettrica. Con la strategia “Missione E-Mobility Italia” persegue l’obiettivo di portare sulle strade italiane 4 milioni di veicoli elettrici al 2030.
È realistico, con la crisi in atto, arrivare in Italia a 4 milioni di veicoli elettrici entro il 2030?
È un obiettivo che si è posto il governo italiano con il Piano nazionale integrato di energia e clima (Pniec) che nel 2019 prevedeva la riduzione del 40% delle emissioni di CO2 o altri clima alteranti al 2030. Noi cerchiamo di capire come raggiugere quel risultato che sta diventando più sfidante alla luce degli impegni del pacchetto normativo Fit for 55 del 2021 che traguarda a -55% la riduzione delle emissioni. Un target più difficile per quanto sarebbe bello avere più auto elettriche per le strade. Non si tratta solo di aumentare l’acquisto di auto elettriche (almeno la metà del milione e mezzo immatricolate ogni anno), ma di ridurre il nostro tasso di motorizzazione, tra i più alti d’Europa con 39 milioni di auto, disincentivando i mezzi più inquinanti.
Ma così non si perdono molti posti di lavoro?
In realtà le aziende della filiera elettrica “Made in Italy” sono in costante crescita. Stimiamo un fatturato possibile al 2030 di 98 miliardi di euro con il coinvolgimento di 10 mila imprese. Lavoriamo perciò con università, imprese, enti locali e sindacati per un piano di politica industriale di tutta la filiera dell’automotive italiana con un piano di formazione di nuove competenze dei lavoratori del settore. In 30 anni siamo passati, in Italia, da una produzione annua di 2 milioni di autovetture alle attuali 500 mila. Stellantis (ex FCA) ha annunciato che elettrificherà tutta la gamma Fiat, Lancia e Alfa Romeo entro il 2028 in Europa. Dobbiamo svegliarci se non vogliamo che facciano tutto all’estero e seguire il modello tedesco del Baden Württemberg, che dal 2017 ha attivato un tavolo permanente tra tutti i soggetti pubblici e privati coinvolti nella transizione del settore auto.
Con l’auto elettrica non saremo più dipendenti dalla Cina?
Esiste attualmente un vantaggio della Cina circa il trattamento (raffinazione) delle materie prime e la produzione delle batterie, ma la ricerca tecnologica sta sostituendo i materiali più critici con altri più abbondanti e più facilmente reperibili (ad esempio il sodio) e lavorabili, tra l’altro, in Europa in modo da raggiungere l’autosufficienza nel 2030. Tra i materiali critici stiamo assistendo, ad esempio, alla progressiva eliminazione del cobalto che arriva sempre di più da fornitori non coinvolti in conflitti armati.
(A cura di Carlo Cefaloni Intervista integrale su cittanuova.it)