Cave canem! (per non tacer del gatto)

Storie di antichi animali. Alla scoperta di una Pompei “minore” ma non meno interessante, fatta anche di restauri riusciti e non solo di muri cadenti
Cave canem di Pompei

Non vi aspettate, trattandosi dell’antica Pompei, che parli di nuovi muri caduti, di domus fatiscenti e di restauri che aspettano da decenni: problemi che, giustamente, vanno tenuti d’occhio ma rischiano anche di diventare luoghi comuni e di alimentare un certo disfattismo. Per fortuna c’è anche altro e di meglio da dire sulla città sepolta dal Vesuvio (anche a voler tralasciare il suo patrimonio naturalistico, che invece gode ottima salute e sarebbe interessante approfondire).

Stavolta voglio soffermarmi su un piccolo ma significativo restauro arrivato a felice compimento: riguarda il “Cave canem”, tra i mosaici più famosi al mondo e uno dei simboli di Pompei, che si ammira sul pavimento d’ingresso della domus detta “del Poeta tragico”, situata proprio di fronte alle terme centrali. Da tempo in pessime condizioni per mancanza di manutenzione e infiltrazioni d’acqua (presentava numerose tessere staccate ed era in parte illeggibile a causa dei microrganismi che ricoprivano il marmo), è ora tornato a splendere in tutta la sua bellezza. Il prezioso mosaico, detto del “Cave canem” (Attenti al cane) dall’iscrizione che lo correda, raffigura infatti realisticamente, e con tanto di catena, un cane di pelo nero maculato di bianco, nell’atto di ringhiare verso i malintenzionati che volessero violare questa casa signorile.

Non è l’unico del genere a Pompei. Trasferiamoci in via dell’Abbondanza, nella dimora dell’arricchito panettiere Paquio Proculo, il cui celebre ritratto con la consorte si trova nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nel vestibolo d’ingresso di questa domus fa mostra di sé, sempre a mosaico, un altro cane alla catena, rappresentato accanto ad una porta semiaperta. E ancora all’Archeologico di Napoli, nella sezione dei mosaici, è esposto un terzo cane pompeiano, proveniente dalla domus di Orfeo (o di Marco Vesonio Primo). Anche se ha un aspetto meno feroce del compagno appena restaurato, è così scattante e naturale che sembra di sentirne i latrati.

Da notare che questi cani da guardia avevano tutti il mantello nero o comunque scuro: probabilmente per essere poco visibili di notte in modo da sorprendere il possibile ladro che tentava di introdursi in casa.

E che dire di quello dipinto su un pilastro del Termopolio della I reg., 12, 3? Testimonia una consuetudine estesa a tutto il mondo romano, come ci ricorda un noto passo del Satyricon di Petronio Arbitro: «Guardavo incuriosito, quando sobbalzai così improvvisamente che quasi mi spezzavo una gamba. Sulla sinistra, vicino alla guardiola del portiere, era dipinto un grosso cane alla catena, che sembrava vivo, con al di sotto scritto in maiuscolo: “Attenti al cane”».

Esemplari di cani in altri atteggiamenti appaiono su non pochi affreschi pompeiani: li si vede guidare greggi, all’inseguimento di cacciagione, e perfino presenziare a scene magiche o di culto.

E c’erano, naturalmente, quelli in carne ed ossa, i cui scheletri sono stati ritrovati spesso accomunati ai resti di altri animali domestici come cavalli o asini, nelle stalle o nei mulini, dove questi ultimi giravano le pesanti macine di pietra lavica. Non lontano da Pompei, in una villa rustica a Scafati, lo scheletro di un cane a guardia di un equino portava ancora al collo un tintinnabulum (campanello) di bronzo: notizia fornitami dall’amica archeologa Marisa de’ Spagnolis che ha scavato quel sito. Nessun cane però è così famoso come quello della già menzionata domus di Orfeo, di cui si riuscì a realizzare addirittura il calco secondo il metodo inventato nel 1856 dall’allora direttore degli scavi Giuseppe Fiorelli, metodo che prevedeva una colata di gesso liquido nei vuoti lasciati dal dissolvimento dei corpi nello strato di materiale vulcanico.

Accanto a quelli delle vittime umane, da sempre l’elemento più impressionante per chi visita Pompei, il calco di questo cane (forse l’”originale” di quello ritratto a mosaico?) rende palpabile la tragedia che coinvolse anche gli animali, questi umili ma preziosi collaboratori dell’uomo. È ancora visibile il collare col quale era legato a una catena che gli impedì di fuggire, condannandolo ad una morte atroce, come denotano le contrazioni dell’agonia. Toccante come la sua, sempre che la notizia sia vera, la sorte di un altro cane, il cui scheletro venne ritrovato su quello di un bambino, quasi a proteggerlo: dall’incisione sul collare risultava, assieme al suo nome Delta, che aveva salvato per ben tre volte la vita al padroncino Severino. Purtroppo, quel fatale giorno dell’anno 79, non ci era riuscito.

Ed oggi? Gli attuali abitanti dell’antica Pompei sono ancora loro, i cani. Torme di randagi hanno ormai preso stanza fra le rovine e si aggirano indisturbati sotto gli occhi incuriositi o allarmati dei visitatori oppure, oppressi dalla calura, fanno la siesta accasciati nelle pose più varie. Anni fa, per rimediare al problema, prese il via un progetto che prevedeva la cura, vaccinazione, sterilizzazione nonché adozione di questi randagi, i cui nomi pittoreschi si ispiravano all’antica città: Meleagro, Plauto, Licinio, Eumachia, Vesuvio, Vesonio, Paquio e quant’altro.

Non mi risulta che tale progetto, cui collaboravano anche associazioni animaliste, abbia dato gli effetti sperati; tant’è che questa popolazione canina è in crescente aumento ed è normale, per chi viene a Pompei, imbattersi in qualche Meleagro, Polibia o Asclepio a quattro zampe perfettamente a loro agio tra i ruderi. Del resto chi potrebbe dar loro torto, quali lontani discendenti del “Cave canem”?

A questo punto ci si può chiedere dove siano finiti i gatti che non potevano mancare nella fauna domestica pompeiana. In effetti nelle città sepolte dal Vesuvio non si sono trovati resti di questi felini. E sì che le moderne tecniche di scavo rendono possibile perfino rintracciare, nel giardino o nell’orto di qualche domus, le tracce dei formicai!

L'ipotesi più attendibile è che i gatti, di cui è nota la capacità di avvertire in anticipo eventi naturali catastrofici, fuggirono alle prime avvisaglie del pericolo che sovrastava Pompei, sfruttando il fatto che, a differenza dei cani, non erano tenuti legati a guinzaglio o catena di sorta. In mancanza di loro testimonianze, ci compensa largamente il prezioso mosaico pompeiano proveniente dalla lussuosa domus del Fauno: custodito anch’esso all’Archeologico di Napoli, ritrae in maniera mirabile un gatto selvatico che afferra un volatile, probabilmente una quaglia. Non esito a definirlo l’immagine più bella di questo furbo felino che ci sia pervenuta dall’antichità.

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