Cavalleria sangue e fuoco

All'Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma, il pubblico in delirio per un'interpretazione in forma di concerto dell'opera di Mascagni
James Conlon

Non si esegue più tanto Cavalleria rusticana, l’opera con cui il giovane Mascagni uscì dalla miseria e diventò celebre. Tutto d’un colpo. Una chance che poi non ritrovò più quanto a forza, passione, continuità di ispirazione. Ci sono certe cose che nascono di getto e poi muoiono, nella storia dell’arte. Mistero. È successo così anche a Leoncavallo con i suoi Pagliacci. Mascagni, era il 1890 e Verdi sembrava aver chiuso con la tempesta di Otello, inaugurava il “verismo” in musica, rubando il soggetto a Verga, portandolo in concorso a Sonzogno e sbaragliando i 72 concorrenti. Senza raccomandazioni, a quanto pare.
 
L’opera è furente quanto può essere un toscano sanguigno di venticinque anni. Un solo atto, separato in due da un intermezzo – destinato a essere famoso per la sua immediatezza passionale (che si rifà a Verdi, reinterpretandolo) –, e un’ora e mezzo circa di musica che non lascia un attimo in pace. Con guizzi originalissimi, come il canto di Turiddu fuori scena all’inizio, il brindisi selvaggio, i cori chiesastici popolari, e quelle accensioni vibranti da grande orchestra, ricche di colpi di scena (e di ottoni e percussioni) che sanno di passionalità nuda e cruda, di sentimenti istintivi – gelosia, vendetta, fatalità –, che avvinghiano per la loro brutale immediatezza.
 
Cavalleria è fuoco e sangue. Ma Mascagni sa come trattare le voci e l’orchestra, immettendovi delicatezze dell’arpa, stornelli toscani (vorrebbero però essere siciliani, ma chi se ne accorge, tanto sono belli), cori polifonici di lungo studio e ritmi da operetta, che ama brevi frasi incisive. Verdi certo è l’ombra presente, e lo si sente nel duetto Santuzza-Turiddu, di concisa drammaticità. Ma è un Verdi ripulito, ripensato, digerito e rimesso a fuoco a fine Ottocento con un furore nuovo. Che è quello che ha ammaliato il pubblico di allora e di sempre.
 
A Roma, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, un focosissimo James Conlon ha diretto a grandi bracciate l’opera, in forma di concerto. L’orchestra ha risposto con entusiasmo ardente – certe fulminate degli ottoni erano tremende –, seguendo, talora con qualche dubbio, i cantanti: le passionali Luciana D’Intino (Santuzza), Marta Vulpi (Lola) ed Elena Zilio (Lucia), ben in forma, e il cast maschile, come l’Alfio prepotente di Roberto Frontali e il Turiddu di Aleksandrs Antonenko, voce possente, forse un po’ troppo. Direzione, come si diceva, sanguigna, precisa, che ha gettato luce nuova su un’opera oggi non troppo amata forse da certa critica, eppure segno di un’epoca dove il gesto teatrale piaceva, anche se urlato. Pubblico in delirio di fronte a una prestazione, in particolare dell’orchestra e del coro, di eccellente livello. Come si diceva: fuoco e fiamme.
 
Si replica stasera e domani.

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