Cavalieri selvaggi dell’Afghanistan
Cavalieri selvaggi di Joseph Kessel è un romanzo che ci trasporta in un Afghanistan ancora medievale, benché la vicenda si svolga negli anni Cinquanta del secolo scorso; un Afghanistan esotico e favoloso, tra popolazioni fiere e indomite, dedite alla pastorizia e all’allevamento dei cavalli, tra steppe sconfinate, montagne inaccessibili e paesaggi fiabeschi; un Afghanistan dove l’ospite sconosciuto viene trattato con tutti gli onori, dove anche i più poveri si appagano dei racconti e dei canti tramandati oralmente che celebrano l’amore, l’ardimento, la bellezza, dove la gente impazzisce per le competizioni fra montoni e, soprattutto, per il “bozkashi”, il gioco nazionale senza regole scritte che vede i cavalieri (“ciopendoz”) contendersi le spoglie di un montone da lanciare in un’area definita, sfoggiando le loro prodezze in una tenzone violenta che non risparmia cavalli e cavalieri.
La vicenda prende le mosse appunto dal “buzkashi del re” che ha luogo a Kabul, la capitale. Vi partecipa Uroz figlio di Tursèn, un leggendario ciopendoz che dopo essere stato vincitore in più gare del genere è ora addestratore di stalloni. Ormai vecchio ma sempre indomito, egli ama quel figlio ma al tempo stesso ne invidia la giovanile baldanza, e in cuor suo vorrebbe che non vincesse. Ciò che non osa confessare a sé stesso, avviene puntualmente e durante la gara, descritta in 17 pagine in tutto il suo folklore e la sua violenza primitiva, Uroz a cavallo del suo baio Jehol, uno stallone senza eguali per bellezza e vigore, viene messo fuori gioco da un incidente alla tibia sinistra.
Sentendosi avvilito e disonorato per la sconfitta, il giovane fugge dall’ospedale nel quale è stato ricoverato e decide di non tornare dal severo padre, conscio che da lui non gli verrà che disprezzo. E in groppa al suo stallone, accompagnato dal servo Mokkhi, cui si aggiunge più tardi una ragazza nomade, percorre l’antica via carovaniera che congiunge l’Afghanistan del Sud con quello del Nord, dov’è la sua casa, attraversando a 3.500 metri d’altezza, al valico dello Shibar, l’imponente massiccio dell’Hindu Kush.
Questo itinerario, che occupa gran parte del romanzo, si rivela un vero viaggio espiatorio in quanto Uroz, febbricitante per la ferita che gli va in cancrena (la gamba infatti gli verrà tagliata durante una delle tappe), deve affrontare un territorio desertico e impervio che rappresenta una sfida alle possibilità umane, e in più fare i conti con le insidie che gli vanno tendendo il suo stesso servo e la nomade, desiderosi di impossessarsi, lui del cavallo, lei delle ricchezze di Uroz.
Tralascio di accennare ad altre innumerevoli prove cui, durante il tragitto, vengono sottoposti i tre, come pure alla conclusione a sorpresa, per non togliere al lettore questo piacere.
Quanto all’autore, nacque in Argentina nel 1898 da genitori ebrei immigrati, fece i suoi studi in Francia, partecipò alle due guerre mondiali e durante la seconda si unì alla resistenza. Dopo la liberazione, ormai affermato giornalista, viaggiò molto: Palestina, Africa, Birmania e Afghanistan. Di qui la sua conoscenza dei costumi e delle tradizioni afghane, confluite poi in questo romanzo del 1967. Cavalieri selvaggi divenne nel 1971 anche un film diretto da John Frankenheimer, con Omar Sharif e Jack Palance nei ruoli rispettivamente di Uroz e Tursèn.
In questo magistrale affresco, narrato con le immagini favolose e poetiche dei cantastorie di un tempo, non c’è un personaggio umano che non sia inquinato dalle passioni, causa di molti eccessi: fa eccezione il giovanissimo servo Rahim, per il quale essere stato sfigurato dal grande Tursèn con un colpo di scudiscio è un onore da raccontare un giorno ai propri figli. Ma il vero protagonista che per innocenza e nobiltà d’animo si erge sulle creature umane del romanzo è proprio Jehol, lo stallone.
Eccone una descrizione, dopo il terribile e lungo viaggio che aveva ridotto lui e il padrone in uno stato pietoso: «Liberato della carne e del grasso superflui, Jehol aveva riacquistato la sua linea più elegante, il suo armonioso equilibrio. Grazie alle cure e all’arte dei sais [palafrenieri], il suo mantello aveva la lucentezza di quello delle fiere e i riflessi della seta. Il gioco superbo dei muscoli marezzava la superficie di quel tessuto prezioso. E la criniera spazzolata, pettinata, lisciata, carezzata dalle mani più abili della provincia, fluiva sul collo il cui arco slanciato e puro reggeva una testa allungata e fine dove i larghi occhi ardevano di un fuoco che aveva il colore dei chicchi di melagrana. In verità Jehol non era mai stato così bello. E lo sapeva».
Memorabili sono le pagine in cui Kessel descrive la pazza corsa notturna di Uroz in groppa allo stallone crudelmente fustigato a sangue, finché questi s’arresta di botto, disarcionando il suo ciopendoz. Caduto a terra, furente e disperato il giovane vede fuggire il cavallo che aveva deciso di uccidere per sottrarlo al servo Mokkhi. Ma poco dopo ne risente avvicinarsi lo scalpitìo. Torna forse per finire l’ingrato padrone? E qui l’imprevedibile. «La testa di Jehol dagli occhi immensi e colmi di luna si abbassò, si rialzò per attirare a colpo sicuro l’attenzione di Uroz e, lentamente, decisamente, si volse verso la sella». Questo chiaro invito ad essere montato di nuovo commuove Uroz, che «circondò con le braccia il collo di Jehol e vi premette, vi incollò la gota». Invece di vendicarsi, il nobile animale era tornato a salvare lui che poco prima gli si era dimostrato incomprensibilmente nemico.
Cavalieri selvaggi è un monumento al cavallo, questo nobile animale idolatrato dalle popolazioni afghane, per le quali esso conta più dell’amore di una donna.
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