Cattolici e politica, un caso serio

A che serve impegnarsi in politica se poi non si incide su ciò che conta? La questione delle gravi violazioni dei migranti e la logica prevalente della guerra. Un caso serio da affrontare senza retorica
Politica Mario Draghi e Jens Stoltenberg AP Photo/Francois Mori

Si può essere e agire in politica mantenendosi liberi cioè ingenui come diceva Igino Giordani, uno dei padri costituenti, che invitava a non lasciare la coscienza fuori dall’aula parlamentare? Ne abbiamo parlato più volte e bisogna rimetterlo in evidenza dopo la relazione degli investigatori indipendenti dell’Onu sulle torture e gli stupri consumati da funzionari statali libici contro i migranti e detenuti. Ne ha dato ampia notizia come al solito Nello Scavo su Avvenire mentre in Germania una inchiesta approfondita della stampa tedesca (l’agenzia Ard) si è concentrata sui respingimenti violenti che avvengono sul confine croato ai danni dei profughi che cercano di entrare nel territorio dell’Ue. Le cancellerie occidentali e quelle del vecchio continente sono seriamente preoccupate dal flusso migratorio in partenza dall’Afghanistan riconsegnato dagli Usa al controllo dei Talebani.

Sono enormi problemi che, secondo il motto di Machiavelli, non si possono governare con i paternoster ma con un preteso realismo che conduce l’Ue a pagare la Turchia di Erdogan per fermare il flusso migratorio e l’Italia a finanziare la guardia costiera libica pur conoscendo i rapporti dell’Onu.

Il realismo perde la sua tragica razionalità davanti alla scelta di armare i Paesi in guerra. Ad esempio la nostra Fincantieri, sotto controllo pubblico, ha venduto 2 navi da guerra all’Egitto, alleato di Russia e Emirati arabi uniti nel sostenere la fazione di Haftar in Libia. Il nostro Paese è in perenne competizione con i francesi per assicurarsi forniture militari importanti: le due navi vendute all’Egitto sono la premessa di un più grande affare da concludere con Il Cairo. La Francia è in crisi diplomatica con gli Usa per aver perso una mega commessa di sottomarini bellici con l’Australia a favore di Gran Bretagna e Stati Uniti (tutti Paesi Nato). Ma la vera gallina dalle uova d’oro è il World Defense Show 2022 previsto nel prossimo marzo in Arabia Saudita, uno dei più grandi Expo di armi pesanti al mondo dove le nostre industrie della difesa e dell’aerospazio vogliono essere presenti per non perdere grandi opportunità di mercato.

Modestamente anche la mostra nautica che si è chiusa il primo ottobre a La Spezia ha visto la presenza di numerose delegazioni delle marine militari di Paesi dell’Africa e del Medio Oriente interessate al settore bellico sempre più predominante nella manifestazione fieristica ideata per promuovere l’economia blu, cioè quella marina. Un cartello di associazioni, come riporta con l’abituale precisione Giorgio Beretta, ha cercato di porre l’attenzione sul ritorno a questa missione originaria di “Sea Future”, una riconversione economica che interessa tanti altri ambiti della produzione industriale a cominciare da Fincantieri e Leonardo se si volesse seguire un criterio di transizione ecologica integrale.

Ma in Italia questo argomento è un tabù. E dopo la fine dell’intervento occidentale in Afghanistan non ci si è interrogati sul senso di quella missione che ha richiesto la morte di 54 militari italiani e centinaia di feriti. Erano e restano molto deboli le ragioni dei bombardamenti decisi dagli Usa per rispondere all’attentato dell’11 settembre 2001. Dopo 20 anni, il fallimento di certe scelte strategiche seguite poi dall’invasione dell’Iraq, il caos siriano e l’improvvido colpo di mano in Libia nel 2011, dovrebbe almeno suscitare un dubbio nei confronti di un alleato che ha poi deciso di lasciare Kabul senza interpellare gli altri Paesi coinvolti.

Il nuovo concetto strategico della Nato

Non dovrebbe restare argomento riservato a pochi la definizione del “nuovo concetto strategico della Nato” in via di elaborazione da un numero ristretto di esperti, tra i quali l’italiana Marta Dassù dell’Aspen Institute, anche perché non è affatto una questione astratta ma destinata ad incidere sulle scelte politiche che contano, come quelle di dove e su cosa investire.

AP Photo/Roman Koksarov

Secondo le continue sollecitazioni Usa e dell’Alleanza atlantica, l’Italia è chiamata a spendere nella difesa l’equivalente del 2% del suo Pil e ci sono gli impegni presi con la Lockheed Martin per l’acquisto e la produzione in particolare dei caccia bombardieri F35 predisposti anche per le armi nucleari. Ma il fronte degli investimenti è in continuo aggiornamento, come riporta sulla Rivista italiana di difesa il Capo di Stato maggiore della Marina Miliare, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, parlando del progetto di dotare di missili Cruise i futuri sottomarini U212-Nfs e anche le nuove fregate Fremm. Come fa notare la Rete italiana pace e disarmo (Ripd), i missili Cruise, che moltiplicano il raggio d’azione oltre i mille chilometri, sono quelli noti in Italia per essere stati installati, con testate nucleari, dal 1983 al 1991 nella base Nato di Comiso in Sicilia.

Sempre la stessa Ripd, citando fonti ufficiali del governo, segnala l’investimento stanziato di 168 milioni di euro per trasformare i droni Reaper (falciatore) in dotazione al 32° Stormo dell’Aeronautica militare stanziato ad Amendola (Foggia) da strumenti di osservazione in veri e propri bombardieri niente affatto precisi dato che «le vittime civili delle azioni militari effettuate con droni armati sono molto alte, in alcuni casi fino al 90%».

Proprio perché, come afferma l’autorevole studioso Gilles Kempel «il Mediterraneo e il Medio Oriente stanno diventando una polveriera sempre più minacciosa» dove si decide «il nostro futuro geopolitico e i grandi sconvolgimenti del mondo contemporaneo», l’Italia deve decidere quale ruolo vuole giocare in questo cruciale momento storico. Ed è una domanda che i credenti impegnati direttamente in politica non possono ignorare. Altrimenti resterebbero solo appelli retorici gli inviti continui del papa «a smilitarizzare i cuori» e «a ridurre le spese militari per provvedere ai bisogni umanitari, a convertire gli strumenti di morte in strumenti di vita», come ribadito nel messaggio inviato all’incontro di preghiera per la pace organizzato il 7 ottobre dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma.

Disarmati davanti alla Terra dei Fuochi

Parole che diventano comprensibili, ad esempio, se si mettono in corrispondenza i soldi destinati ad armare i droni o ad acquistare i missili Cruise e la tragica mancanza di risorse denunciata, come riporta Toni Mira su Avvenire,  dall’ultimo incontro dei vescovi della cosiddetta Terra dei Fuochi in Campania.

Terra dei fuochi LaPresse – Marco Cantile

Abbiamo il denaro per andare a bombardare a migliaia di chilometri, secondo direttive tutte da discutere, ma siamo disarmati nella guerra contro i tumori che devastano la popolazione di un vasto territorio italiano.

Per essere chiari, è necessario e opportuno per un Paese sovrano organizzare la propria difesa in un quadro di relazioni internazionali, come sta avvenendo ora nella discussione aperta sulla carente se non assente politica di difesa europea.

Nella cena informale tra i leader Ue che si è tenuta il 5 ottobre nel  castello di Brdo, in Slovenia, come riporta il Corriere della Sera, Mario Draghi «ha chiesto alla Commissione di produrre un documento sulle prospettive comuni dell’Ue» sulla difesa europea. Un tema scottante se si considerano le critiche del segretario generale della Nato, il laburista norvegese Jens Stoltenberg, verso strutture «concorrenti» con la Nato che rischiano di indebolire l’Alleanza. Allarme che può rientrare facilmente se si considerano le strategie opposte seguite dai Paesi europei, come nota Stefano Montefeltro sempre sul Corriere, citando lo scontro in atto tra Germania che vende sottomarini da guerra alla Turchia, e la Francia che è impegnata in un simile progetto con la Grecia. Si armano cioè due Paesi che, pur appartenenti alla Nato, sono sempre sull’orlo del conflitto come si palesa nella contesa sulla «zona economica esclusiva greca nel Mediterraneo orientale, dove sono stati scoperti importanti giacimenti di gas».

Davanti a tale scenario, come si deve interpretare la dichiarazione, rilasciata da Mario Draghi nella conferenza stampa del 29 settembre, sulla necessità di «spendere molto di più nella difesa di quanto fatto finora»?

Come ha detto il 5 ottobre il segretario di stato Usa, Tony Blinken, incontrando il presidente francese Macron «dobbiamo essere chiari su ciò che vogliamo per noi stessi, per i nostri confini, per la nostra sicurezza, per la nostra indipendenza energetica, industriale, tecnologica e militare».

Non affrontare tali questioni in un dibattito pubblico da parte della politica italiana è un atto di sottomissione alla filosofia di Machiavelli che nel “Principe” osservava che «tutti i profeti armati vinsero, e li disarmati rovinarono». Accettare questa logica di disimpegno spiega molto del fenomeno preoccupante della crescente astensione al voto che matura quando si è convinti di contare poco o nulla in un mondo dove, retorica a parte, tutto è ormai deciso dagli altri.

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