Il caso Paciolla fuori dal cono d’ombra
La rivista Confronti, autorevole mensile di dialogo interreligioso e interculturale, ha deciso recentemente di dedicare la copertina e l’inchiesta di apertura a Mario Paciolla, il giovane studioso, volontario attivo per il rispetto dei diritti umani, trovato morto in Colombia in circostanze dubbie il 15 luglio 2020, alla vigilia del ritorno a Napoli. La sua città natale non lo ha dimenticato in questi anni come dimostra l’aula che gli è stata dedicata all’Università Orientale dove ha studiato. Il noto artista Jorit ha dipinto un grande murales con il volto di Mario e l’editrice Marotta e Cafiero ha promosso, in suo onore, una collana di letteratura colombiana.
Ma il “caso Paciolla” è rimasto finora nel cono d’ombra riservato di solito a tutti ciò che riguarda l’America Latina, anche per le implicazioni e le responsabilità che chiama in gioco. Cominciano, ad ogni modo, ad arrivare diversi segnali di attenzione a livello nazionale verso una vicenda che è molto simile a quella di Giulio Regeni e che allo stesso modo esige che si raggiunga la verità sulla fine prematura di una vita dedicata all’impegno per la giustizia e la pace.
Paciolla, nato nel 1987, era andato in Colombia come volontario delle Peace Brigades International, ong canadese di ispirazione nonviolenta e gandhiana, e stava collaborando con l’Onu nell’attività di controllo degli accordi di pace tra il governo colombiano e i guerriglieri delle Farc. La sua morte è stata sbrigativamente trattata come un caso di suicidio, nonostante i segni di violenza sul corpo, mente la sua stanza dove è deceduto è stata immediatamente ripulita di ogni traccia utile alle indagini.
Come al solito sono i familiari, il papà Pino e la madre Anna Motta, a non demordere nella ricerca della verità sulla fine violenta del loro figlio. Ad assisterli in questa attività che li ha portati ad incontrare anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’avvocata Alessandra Ballerini, la stessa legale che segue il caso Regeni e che ci ha permesso di sentire i genitori di Mario Paciolla. Ci troviamo, infatti, davanti ad un passaggio molto delicato della vicenda giudiziaria iniziata in Italia dopo la rapida chiusura del caso in Colombia, perché il giudice delle indagini preliminari deve sciogliere la riserva dopo la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Roma.
Sappiamo che la tragica scomparsa di vostro figlio nel 2020 è legata all’impegno nella ricerca della pace in Colombia, Paese al centro di un conflitto violento che coinvolge milizie rivoluzionarie, organizzazioni di narcotrafficanti, squadroni della morte e comunità nonviolente. Perché insistere a parlare della questione dopo la richiesta di archiviazione da parte della procura di Roma?
Per noi genitori, ma anche per tutti coloro che in questi tre lunghi anni ci hanno sostenuto, non è possibile accettare un’archiviazione per suicidio. Noi siamo certi che la morte di Mario è un chiaro omicidio. Sappiamo che nostro figlio è stato ucciso in una realtà complessa, la motivazione della sua morte va sicuramente ricercata nell’ambiente del suo lavoro.
Mario ha fatto un biglietto di ritorno il giorno 14, perchè si sentiva in pericolo, ha dovuto per ciò eseguire procedure complicate in quanto rientrava in Italia con un volo umanitario e ha saputo organizzare vari spostamenti; non solo ha acquistato i biglietti aerei ma ha avvertito, con una mail, l’Ambasciata che stava lasciando il paese. Questo dimostra la sua paura, ma anche la sua lucida determinazione ad allontanarsi da una situazione che sapeva pericolosa. Viene ritrovato morto dopo poche ore con una modalità spesso utilizzata in Colombia per simulare un suicidio e che in ogni caso non coincide con il risultato dell’autopsia eseguita in Italia.
Mario nei giorni che precedono la sua morte chiude il conto bancario colombiano, restituisce gli attrezzi ginnici che aveva preso in fitto durante la pandemia per mantenersi in efficienza fisica, avverte il proprietario di casa della suo rientro a Napoli ma non disdice l’abbonamento a Spotify a testimonianza della sua volontà di proseguire ad ascoltare musica. Vorremmo anche puntualizzare che gli unici a sapere ufficialmente della partenza di Mario erano i suoi referenti dell’Organizzazione per la quale lavorava.
Come dovrebbe agire, a vostro parere, l’Onu per fare chiarezza?
Molte sono le richieste che più volte abbiamo fatto all’Onu, personalmente e tramite i nostri avvocati, mai abbiamo avuto risposte. Per prima cosa vorremmo sapere perché il personale Onu trattiene le chiavi dell’appartamento che Mario pagava a sue spese. Le chiavi, secondo i protocolli dell’Organizzazione, ma anche quelli internazionali, dovevano essere consegnate alla polizia come mai sono state trattenute dal rappresentante della sicurezza signor Cristian Thompson? Eppure i protocolli parlano chiaro: anche in caso di suicidio la scena non può e non deve essere alterata in nessun caso. Nella vicenda di Mario non solo viene alterata e pulita con la candeggina, ma vengono gettati in discarica oggetti appartenuti a nostro figlio, le agende di Mario che sicuramente lui aveva (sappiamo che stava scrivendo un racconto), c’è poi la testimonianza di persone che hanno affermato che Mario camminava sempre con un grande quadernone dove si appuntava le note.
Per noi sarebbero stato davvero importante riavere ciò che è stato buttato, sia per un indagine più approfondita sia perché tutto ciò che è appartenuto a Mario, il condensato di ricordi, il capitale umano andato perso, ha per noi un valore inestimabile e doveva essere e restituito a noi famiglia. Tutto ciò non è grave ma gravissimo e crudele.
Perché, secondo voi, c’è stata una scarsa attenzione in Italia sulla morte di Mario? Chi si è mosso finora con decisione per far riaprire il caso?
Noi pensiamo che di fatto la vicenda di Mario non emerga mediaticamente perché ci sono pressioni internazionali.In questi anni abbiamo avuto la vicinanza di voci autorevoli del giornalismo, l’Associazione Articolo 21 e il suo presidente Giuseppe Giulietti, il presidente della Fnsi Vittorio Di Trapani, il Sindacato unitario giornalisti della Campania, nella persona di Claudio Silvestri, si sono spesi per sostenere la causa di Mario, e così la rivista Confronti. Ultimamente la giornalista Carla Manzocchi, in occasione del terzo anniversario della morte di Mario, ha realizzato un podcast molto interessante e completo per Rai Radio Uno, altri giornalisti hanno realizzato servizi televisivi come Valerio Cataldi per Rai news 24 con il programma spotlight dal titolo “Mario che costruiva la pace”, Gaston Zama per il programma Le iene un report in quattro puntate dal titolo “Mario Paciolla non doveva morire” ed ultimamente Marco Damilano ha dedicato a nostro figlio una puntata del “Cavallo e la torre” e Andrea Purgatori ci aveva fatto un anno fa una bella intervista pubblicata su Oggi; molti altri giornalisti si sono interessati alla vicenda di Mario ma tutto questo non è bastato a renderlo un caso nazionale.
La morte di un ragazzo all’estero oggi purtroppo è frequente, ma parlare mediaticamente della morte di Mario è assolutamente necessario perché bisogna puntare l’attenzione su organizzazioni che purtroppo a volte hanno comportamenti opachi che andrebbero stanati per il bene dell’intera collettività. Se l’ONU non riesce a tutelare la vita di un proprio dipendente, ma addirittura si rende autore di anomalie procedurali gravi pensiamo che sia necessaria una riflessione. Se si classifica la morte di nostro figlio come suicidio, nonostante tutti i depistaggi evidenzino un chiaro omicidio, fin quando non ci sarà una verità processuale, quello di Mario non diventerà un caso mediatico nazionale.
Quali ragioni vi spingono a sperare nella decisione positiva del Gip?
Intanto l’indagine non è archiviata. La procura ha chiesto l’archiviazione, ma Il giorno 16 maggio i nostri avvocati Alessandra Ballerini ed Emanuela Motta, hanno svolto una lunga e dettagliata discussione davanti al giudice e hanno evidenziato le incongruenze, le omissioni e le situazioni che non sono state adeguatamente valutate, a cominciare dalle risultanze dell’autopsia italiana e delle nostre perizie di parte, così come non è stato valutato il difficile contesto lavorativo in cui Mario operava e la lucida paura di nostro figlio in quei ultimi giorni che è stata scambiata invece per instabilità psicologica.
Nostro figlio era un ragazzo sereno, amante della vita, con progetti ambiziosi per il suo futuro e con una gran voglia di tornare a Napoli per riabbracciarci e poter continuare la sua vita in gioia e serenità, così come è sempre stato fino al quel fatidico 11 luglio, cinque giorni prima del suo assassinio, in cui ci comunicava che voleva tornare in Italia e che la Colombia non era più un Paese sicuro per lui. Pertanto riteniamo che sia necessario continuare ad indagare sulla morte di Mario e valutare tutto ciò che i nostri avvocati hanno evidenziato per dare delle risposte ai numerosi quesiti.
Noi abbiamo bisogno di verità credibili. Per noi e per tutta l’opinione pubblica che ha seguito la vicenda è chiaro che quello di Mario è palesemente un omicidio camuffato da suicidio. E che resti impunito è inaccettabile.
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