Caso Kirillov: è terrorismo?
Ormai conviviamo con le guerre dietro casa, ne seguiamo gli sviluppi, ci appassioniamo per determinati casi drammatici, seguivamo l’incredibile evoluzione tecnologica dei droni, ci scandalizziamo per certe operazioni che colpiscono i civili, ci trasformiamo in politologi da caffè, come ci si trasforma spesso in CT della nazionale di calcio di fronte a un bicchiere di vino. Una delle questioni che di questi tempi suscita più discussioni è chiara e semplice: certi atti di guerra possono essere qualificati come terrorismo? I contendenti spesso e volentieri accusano gli avversari in guerra di commettere atti di terrorismo, scambiandosi reciprocamente improperi.
Prendiamo l’ultimo atto della guerra d’Ucraina, l’assassinio con un chilo di tritolo nascosto in un monopattino elettrico del generale russo Kirillov, a Mosca, dinanzi a casa sua: il militare era una delle bestie nere di Kyiv, un ideatore di strategie ciniche contro gli ucraini, oltre che responsabile delle operazioni militari nel nucleare del Cremlino. Il governo di Zelensky ha di fatto ammesso di essere dietro l’attentato. È un atto di terrorismo? Se i due Paesi non fossero in guerra, certamente saremmo di fronte a un atto di tale natura; ma in guerra, dove le parti sono spinte a intraprendere ogni azione pur di vincere?
Se poi passiamo al conflitto di Israele con Hezbollah, come considerare i ripetuti atti di violenza contro i miliziani libanesi filoiraniani, come l’esplosione dei cercapersone che gli Hezbollah avevano acquistato sul mercato internazionale allo scopo di evitare di subire i danni dell’uso dei cellulari, più facilmente individuabili dal nemico, ma poi rivelatisi fatali? Centinaia di miliziani sono stati accecati o hanno subito danni all’apparato digestivo e genitale, con il corollario di un buon numero di civili colpiti da quelle esplosioni. Attentato o atto di barbarie da condannare come crimine di guerra? E come la mettiamo coi “danni collaterali”, con la morte e il ferimento di tanti civili?
Ancora, i missili lanciati da Mosca contro le centrali elettriche ucraine debbono essere considerati terrorismo? E i bombardamenti dei campi profughi, delle scuole, degli ospedali e dei luoghi di culto effettuati di continuo da Israele nella Striscia di Gaza sono terrorismo, quando è noto che spesso i combattenti di Hamas si nascondono dietro paraventi di civili presenti in luoghi sensibili? Di più, come considerare la questione degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre? Quest’ultimo può essere definito come una grave ondata di terrorismo, quando il conflitto israelo-palestinese è aperto dal 1948, senza mai aver avuto una vera interruzione?
Difficile rispondere a queste e ad altre domande inquietanti, come all’accusa di genocidio rivolta dalla Corte penare internazionale rivolta al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e all’ex ministro per la Difesa Yoav Gallant. La prima ragione sta nella grave crisi patita dal diritto internazionale nel suo insieme, che per non pochi esperti è addirittura morto e sepolto, non essendoci più un’autorità internazionale atta a far rispettare norme di legge e a comminare sanzioni a carico di coloro che non rispettano tali norme giuridiche. Ora, in uno Stato sovrano la legge è accettata dai cittadini e non ci si può teoricamente sottrarsi, mentre in ambito internazionale, di fronte alla mancanza di autorità indipendenti efficaci e operative, il rispetto della legge è reale solo se le parti in conflitto l’accettano. Oggi non è il caso, quasi sempre.
La Corte penale internazionale, basata sul trattato di Roma del 17 luglio 1998, è entrata in funzione il primo luglio 2002 per i processi relativi ai crimini di guerra commessi a partire da tale data. Tuttavia, alcune nazioni, tra cui Stati Uniti, Cina e Israele, hanno osteggiato l’istituzione della Corte, rifiutando di farvi parte e di permettere ad essa di avere giurisdizione sui propri cittadini. Finora, prima di Netanyahu e Gallant, erano stati accusati di aver commesso crimini di guerra 5 o 6 capi di Stato, tra cui Saddam Hussein e Slobodan Milosevic. Ma tale Corte non ha un riferimento univoco in una giurisprudenza condivisa: se tutti accettano in teoria il divieto dell’uso delle armi chimiche o di sparare a soldati che alzano la bandiera bianca, come la mettiamo con l’uso delle armi digitali che non esistevano ancora all’atto di istituzione della Corte?
Insomma, i metodi terroristici sono terroristici, ma il problema è la guerra in sé. Non si fa abbastanza per prevenirla, per evitare la Grande Menzogna.
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