Il caso dei paradisi fiscali in Europa
Non sono pochi i Paesi a fiscalità agevolata tollerati in Europa. Secondo l’economista di Berkeley, Gabriel Zucman, concentrano su di sé il 10% del Pil mondiale. Le imprese multinazionali vi trovano condizioni fiscali particolarmente favorevoli e per questo vi stabiliscono la propria residenza fiscale, beneficiando di un vantaggio competitivo rispetto alle imprese degli altri Stati. Dall’Italia drenano circa il 19% (7 miliardi di euro) del totale delle imposte sulle società.
Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta, Cipro e Ungheria si comportano esattamente come paradisi fiscali, ma non rientrano nella black list europea proprio in virtù della loro appartenenza all’Unione.
Come è stato possibile in un continente che ha registrato, in 20 anni, il più impressionante processo di integrazione fra Stati sovrani – dalla fondazione degli Stati Uniti d’America in poi – non omologare anche le condizioni fiscali? L’accelerazione dei processi di globalizzazione, la maggiore mobilità di capitali e la smaterializzazione dei processi finanziari ed economici, legati anche allo sviluppo delle nuove tecnologie, sono alla base di questo fenomeno.
Ma in Europa c’è un fattore peculiare e aggravante. Ricordiamo il discorso di Mario Draghi che spinse la Bce a salvare letteralmente l’euro e l’Unione europea dalla crisi del debito sovrano nel 2012 (il celeberrimo “Whatever it takes”, “Ad ogni costo”): per rendere coesa e protetta dalla speculazione finanziaria l’Unione, Draghi dichiarò «indispensabile un’unione fiscale della zona Euro». Ma questa unione fiscale è ancora lontana. Ecco perché in Europa esistono paradisi fiscali de facto.
L’Olanda, ad esempio, offre alle imprese facilitazioni fiscali sugli interessi, royalties, dividendi e redditi da plusvalenze. Lo ha dimostrato, nel 2006, uno studio di Michiel van Dijk, Francis Weyzig & Richard Murphy: The Netherlands: a Tax Heave?,
Secondo il report di Tax Justice Network del 4 aprile scorso, la sola Olanda ha sottratto agli altri Paesi Ue oltre 10 miliardi di dollari all’anno di tasse sulle imprese.
Ben 70 miliardi di dollari delle multinazionali Usa sono contabilizzati nel Paese (l’8% del Pil olandese), con soli 3,9 miliardi pagati in tasse. Cioè, l’Olanda con 17 milioni di abitanti e meno dell’1% del Pil mondiale, attrae 4 volte i profitti che le multinazionali Usa dichiarano nell’intero continente africano. Una strategia che ha spinto verso una gara al ribasso delle tasse sulle multinazionali degli altri Stati europei che nell’ultimo decennio sono calate del 10%.
Questo modello economico poggia sulla possibilità di costituire nel Paese delle imprese intermediarie nominali dove far transitare flussi finanziari stimati fino a 4 mila miliardi di dollari (5 volte il Pil nazionale) per sfruttare vantaggi fiscali. A ciò si aggiunge un mix di ulteriori facilitazioni: dal trattato di doppia tassazione (Dtt) che consente alle multinazionali di ridurre le trattenute fiscali su interessi, royalties e flussi finanziari da e verso paradisi fiscali attraverso l’Olanda, alla possibilità di arbitrati e pratiche segrete di evasione fiscale individuale, dalle strutture societarie ideali per evadere le tasse americane, fino all’innovation box che stabilisce solo il 7% di tassazione sui profitti finanziari.
Tutto questo è possibile per il fatto di appartenere all’Ue e gran parte dell’elusione fiscale è svolta in modo “regolare”. Ad esempio, per ogni caffè venduto da Starbucks Italy, una percentuale è trasferita a Starbucks Netherlands per l’uso del brand, così riducendo i profitti in Italia e trasferendoli in Olanda. Trasferimento non tassabile in virtù della Direttiva sugli interessi e le royalties del 2003, che aboliva le trattenute fiscali all’interno della Ue.
Ora questo sistema azzera la solidarietà interna all’Unione, ma non è un problema irrisolvibile. Sarebbe sufficiente considerare le multinazionali delle entità uniche, nonostante la pluralità di personalità giuridiche che contengono, e imputare i profitti globali ai Paesi in cui essa opera: il country-by-country reporting sulla cui base costruire un sistema fiscale integrato a livello europeo.
La Commissione e il Parlamento europei hanno approvato, nel 2018, un piano per una tassazione comune delle multinazionali che distribuisce i profitti (e quindi la base imponibile) tra Paesi membri sulla base di volume d’affari e dipendenti per Paese. Questa potrebbe fornire 12 miliardi di fondi propri al bilancio dell’Ue. Ma tutto è fermo nel Consiglio europeo dove le decisioni in materia fiscale sono prese all’unanimità dai governi e quindi bloccate dal veto di questi Paesi.
Di fronte allo stallo delle istituzioni europee possono essere utili le iniziative unilaterali. Polonia, Danimarca, Italia e Francia hanno annunciato di voler escludere dalle misure di sostegno alle imprese tutte le società multinazionali che abbiano sede o controllate in paradisi fiscali.
La black list europea non ha incluso gli Stati Ue, ma il Comitato speciale per i crimini finanziari, elusione ed evasione del Parlamento europeo (Tax3) ha identificato Irlanda, Belgio, Cipro, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Olanda come Paesi che «presentano caratteristiche di paradisi fiscali». Le iniziative unilaterali degli Stati potrebbero agganciarsi a questo pronunciamento.
La Commissione europea ha chiarito che gli Stati membri non possono vietare gli aiuti a multinazionali registrate nei paradisi fiscali europei, perché questo sarebbe contrario alla libera circolazione dei capitali. Caso che potrebbe applicarsi alla Fiat Chrysler (Fca) che ha chiesto alla Sace la garanzia statale su 6,3 miliardi di prestiti, per garantire gli stipendi dei suoi 60 mila dipendenti italiani.
La Fca ha trasferito in Gran Bretagna la sede fiscale per pagare meno tasse e in Olanda quella societaria. Operazioni lecite nell’Ue. Si potrebbe superare questo problema ricorrendo non all’esclusione, ma a un sistema di condizionalità che obblighi tutte le multinazionali che richiedono aiuti all’Italia a rendere pubblici i dati di fatturato, numero di dipendenti, profitti, imposte pagate in ognuno dei Paesi in cui operano. Questo obbligo di trasparenza potrebbe rendere meno convenienti le operazioni di elusione fiscale, perché il costo reputazionale sarebbe troppo alto da pagare.