Case in affitto. Meno tasse per tutti?
Domande sulla novità fiscale della cosiddetta “cedolare secca”. Il parere del notaio Adriano Pischetola
Pagare meno imposte e tasse, far emergere e colpire il “nero” e agevolare l’affitto delle case per abitazione. Questa l’intenzione esplicita della normativa introdotta in Italia con il nome tecnico di “cedolare secca”. Tutti gli adempimenti e le casistiche si trovano nella pubblicistica specializzata, ma la domanda centrale che si pone è un’altra: a chi conviene davvero? Pagano tutti di meno o solo alcuni?
Chi affitta un appartamento per abitazione sui soldi che riceve ogni mese può chiedere di applicare la nuova regola e pagare di conseguenza una percentuale fissa di imposta: il 19 o il 21 per cento, a seconda che il canone sia, o meno, in linea con accordi esistenti tra associazioni di proprietari e inquilini (il vecchio equo canone).
Finora invece è stata applicata la norma generale per cui ogni euro percepito va ad aggiungersi al reddito di chi affitta l’immobile. In un sistema progressivo come quello italiano, in cui cioè si paga una percentuale via via maggiore al crescere del reddito, vuol dire che si parte dal 23 per cento in vigore, con varie esenzioni, fino a 15 mila euro di reddito per poi arrivare, di fascia in fascia, fino alla percentuale massima del 43 per cento oltre i 75 mila euro.
Ecco quindi che un grande proprietario di immobili dati in affitto per abitazione potrà versare non più il 43 ma il 21 per cento dell’imposta sul canone che riceve. In più non dovrà neanche pagare la parte di Irpef prevista, in misura differente, per regioni e comuni (con diminuzione delle entrate degli enti locali, dunque) e neanche imposte di registro e di bollo sui contratti. “Secca” vuol dire appunto “quella e basta”, a prescindere dal reddito. L’importo dell’affitto, comunque, durante il periodo del contratto non potrà aumentare.
Quale sarà l’effetto concreto della nuova regola si vedrà nel tempo, ma la convenienza appare certo immediata per i redditi più alti. Se poi si considera lo stato attuale, molto ridotto, dell’edilizia popolare qualche commentatore ha definito questa novità fiscale un «regalo iniquo».
Sulla questione abbiamo chiesto il parere del notaio Adriano Pischetola: siamo di fronte ad un’evidente diseguaglianza a favore dei grandi proprietari di immobili?
«Potrebbe esservi questo rischio e chi ha fatto la legge ne era consapevole. Ma, a mio giudizio, come in una grande famiglia, quando le cose vanno male per tutti, è meglio che ciascuno faccia la propria parte, sua pure minimale e standardizzata a vantaggio degli altri, piuttosto che far assumere i carichi e i pesi solo a qualcuno che pure deve contribuire di più, senza però raggiungere un benessere “minimo” per tutti . La giuste esigenze che stanno sotto concetti e principi costituzionali come la “capacità contributiva” (pago in proporzione di quanto produco ricchezza) e la “progressività nell’imposizione” (pago di più mano a mano che evidenzio una maggiore capacità produttiva) suppone che tutti concorrano al pagamento delle tasse, sia pure in relazione alla propria capacità di concorso».
E se questo non succede?
«Se ciò non accade, grandi o piccoli che siano i produttori della grande o della piccola ricchezza nascosta alle tasse, tanto vale escogitare un meccanismo che consenta a tutti (meglio: a quanti più cittadini) di pagare almeno una cifra “fissa”, ad aliquote standard, per far sì che nelle casse comuni affluiscano complessivamente più disponibilità finanziarie. D’altra parte la “cedolare secca” è solo una possibilità che permette di evitare altri balzelli che sarebbero invece dovuti (Irpef sul reddito fondiario dell’immobile, imposta di registro sulle annualità di contratto di locazione, imposta di bollo sul contratto stesso). Si può scegliere per il sì o per il no».
Ma se la legge è stata pensata per far emergere la ricchezza sommersa non si potevano introdurre anche dei criteri di equità?
«Si dovrebbe ritornare al sistema previgente (che comunque resta per chi non opti per la cedolare). Si tratta evidentemente di privilegiare ad un concetto astratto di "equità" uno, più pratico e contingente, di risultato, nell’interesse comune e generale della "cosa pubblica". L’equità non va vista solo in relazione allo strumento ipotizzato, ma secondo il fine che quello strumento è in grado di attuare, magari nel medio o lungo periodo.
«Ad esempio anche nel campo delle imposte sulla vendita e l’acquisto di abitazioni tra i privati, ormai da qualche tempo non viene più tassato il prezzo reale che viene intascato dal venditore, ma un valore molto più basso (la rendita catastale rivalutata): è stato un escamotage che ha permesso di ridurre di gran lunga il contenzioso con lo Stato per gli accertamenti sul valore superiore a quello dichiarato dai contraenti. In tal modo si è assicurato un flusso sicuro di introiti per le casse dell’erario a titolo di imposte, assolte dai cittadini senza troppi traumi o, come si dice, “a cuor più leggero”.
«Forse in momenti di difficoltà congiunturale come quello che stiamo attraversando sono importanti, certo non solo, i miglioramenti sul piano dei conti finanziari complessivi dello Stato che, raggiungendo un risultato positivo, possono concorrere ad un benessere economico che finisce per essere più diffuso tra tutti».