Casa Rut, rinascere dopo la violenza

Suor Rita Gioretti accoglie decine di ragazze che hanno conosciuto la brutalità del marciapiede. Nella sua comunità si sperimenta il cambiamento, una vita nuova, la possibilità di un futuro. Oggi celebriamo con lei il nostro no a qualsiasi violenza
Suor Rita con una delle ospiti

Abbiamo raccolto l’intervista di suor Rita Gioretti, responsabile di Casa Rut, un’associazione che si occupa di recuperare le ragazze dalle strade dandole la possibilità di costruirsi una nuova vita. Da Caserta vi proponiamo una storia di speranza per dire no alla violenza contro le donne.

Che cos’è per lei Casa Rut? Di cosa si occupa?

«Casa Rut per me è questo spazio, questo luogo, questo cuore pulsante che dà accoglienza alle donne, soprattutto straniere, che possono percorrere una strada che dalla violenza e dai maltrattamenti le porti ad acquisire una propria libertà. È la riscoperta di una femminilità liberata dove c’è il profumo della dignità. Casa Rut quindi le accoglie, le accompagna nel loro percorso di regolarizzazione, le aiuta a trovare il coraggio della denuncia e le assiste per lasciarsi alle spalle il dramma vissuto. Le ragazze qui guardano al futuro attraverso la formazione e il lavoro nella cooperativa sociale che loro stesse hanno fondato».

Cos’è questa cooperativa sociale?

«Si chiama New Hope, Nuova Speranza. È una sartoria etnica che lavora stoffe, soprattutto africane, e crea bellissimi prodotti pieni di colore. Il prossimo anno la cooperativa festeggerà i suoi primi 10 anni: è un grande segno di vittoria. In una terra come la nostra dove c’è poca legalità, sfruttamento, lavoro nero e inquinamento ambientale, vedere questa cooperativa di donne, considerate ai margini, che oggi diventano imprenditrici protagoniste del loro riscatto, è simbolo luminoso del reale potere del coraggio. Queste ragazze stanno diventando un faro, quasi a dire alle nostre istituzioni, al nostro territorio, alla Chiesa e ai giovani che un altro mondo è possibile, se abbiamo il coraggio di metterci insieme e di credere nelle nostre capacità. Una forza che a noi religiose e alle ragazze viene dalla fede e dall’incontro con Gesù».

C’è una storia di donne e violenza di cui è rimasta particolarmente colpita in questi suoi tanti anni di servizio?

«Sì, la storia di una ragazzina che i carabinieri hanno portato a Casa Rut quando aveva 15 anni. Era già in Italia da un anno e proveniva dall’Albania. Era scappata dal Paese perché aveva creduto al suo giovanissimo promesso sposo che le prometteva un futuro migliore in Italia. Una volta arrivata è stata costretta a vendersi. Ha passato un anno lavorando sulla strada e ha avuto anche un figlio. Appena nato è stato tolto alla madre, venduto e comprato da una famiglia. Alla ragazza non è stato detto neanche dov’era finito: lei era solo merce per guadagnare, per portare soldi ai suoi sfruttatori».

E poi cosa è successo?

«I carabinieri l’hanno trovata senza documenti e l’hanno portata a Casa Rut perché hanno visto che era una bambina. Lei, per paura, non ha detto di aver avuto un figlio. Non si fidava delle forze dell’ordine e dell’Italia di cui aveva conosciuto solo il volto dello sfruttamento, il volto di tanti clienti e di tanti uomini. Io l’ho scoperto per caso. Di solito alle ragazze che arrivano in comunità, facciamo trovare nel letto oltre che un fiorellino anche un peluche, per avere qualcosa verso cui riversare affetto, qualcosa da coccolare. Ricordo che aveva un modo molto particolare di cantare la ninna nanna a questo peluche. Ad un certo punto si è confidata. Ho avvisato subito la polizia e i carabinieri. Si sono aperte le indagini e siamo riusciti a recuperare questo bambino. Mi ricorderò sempre l’incontro di questa ragazzina di 16 anni e mezzo col figlio.È stato incredibile: il bambino piccolo è come se avesse riconosciuto l’odore della mamma. Le è andato in braccio e non ha neanche pianto. In comunità le abbiamo insegnato a essere madre. Oggi, a distanza di 13 anni, questa ragazza è una mamma stupenda. Si è sposata con un ragazzo italiano, ha avuto anche un’altra figlia e lavora. Per noi questa ragazza è il simbolo di una possibile rinascita».

Rabbia ed emozione, ascoltandola, si mescolano. La legislazione italiana come tutela queste donne?

«Per quello che riguarda la tratta delle donne straniere c’è una legislazione che aiuta molto il nostro lavoro. Penso all’articolo 18: la questura, nel momento in cui queste ragazze vengono qui e avviano un percorso, rilascia celermente un permesso di soggiorno, proprio per toglierle dalla condizione di vulnerabilità e invisibilità in cui versano. Hanno un nome, hanno un volto. Ciò che mi indigna però non sono le leggi, ma è questa mentalità, questa cultura che mercifica tutto, dove le persone, i minori, il corpo delle donne, diventano oggetto di scambio, qualcosa che io posso comprare. È una situazione in cui chi ha soldi può disporre della vita di un altro. Allora la sfida è soprattutto etica e culturale, valoriale. Per questo ad esempio vorrei una Chiesa più dentro, più vicina, con parole più forti e chiare».

Stamattina ha parlato con 150 liceali che hanno affrontato il tema della violenza sulle donne…

«I giovani sono il cambiamento, ma bisogna passare per nuove relazioni, rapporti e parole come rispetto, riconoscimento dell’altro e delicatezza, parole che il papa sta usando continuamente. Non possiamo solo invocare leggi repressive o più potere alle forze dell’ordine. Una società che ha tanto bisogno di controllo vuol dire che è una società malata che non riesce a trovare la via per camminare. Abbiamo bisogno di crescere dentro, di umanizzarci, di ascoltare, di non aver paura dei nostri sentimenti ed emozioni. Anche la giornata di oggi non deve restare solo un gesto teatrale: abbiamo fatto delle azioni, dei convegni, ma è domani che si vedrà quanto crediamo in quello che oggi abbiamo celebrato. Come ci mettiamo in gioco? Impariamo a guardarci negli occhi, impariamo a tenderci la mano e a vivere nell’amore».

Abbiamo scelto di celebrare questa giornata raccontando ai nostri lettori la sua storia. Cosa consegnerebbe a chi legge Città Nuova?

«Non lasciamoci rubare i sogni, non lasciamoci rubare la speranza. Come diceva sant’Agostino la speranza ha due bei figli: la rabbia e il coraggio. Non dobbiamo nasconderci. Dobbiamo vivere questa rabbia e questa indignazione, patirla dentro di noi e poi metterci insieme e trasformarla in coraggio. Impegniamoci insieme per il cambiamento. E non diciamo “sarà sempre così”. Il futuro che sogniamo dipenderà da come ci impegniamo oggi».

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