A casa dei Brettii, popolo tra due mari

Tiriolo, rinomato borgo del Catanzarese, sta rivelando testimonianze sorprendenti del suo più remoto passato. Cronaca di una visita lungamente attesa

Tiriolo, un nome che suona bene con le sue quattro vocali accoppiate a due a due e solo tre consonanti. Per tale motivo forse, appena nominato, questo borgo della Sila Piccola aveva suscitato l’entusiasmo di alcuni miei amici ed amiche. E comune decisione era stata: «Andiamo a Tiriolo!». Più facile a dirsi che farlo con persone come loro, sempre molto impegnate. Insomma, di invio in rinvio, la gita programmata stava diventando leggenda. Tanto da farmi venire in mente Gita al faro di Virginia Woolf, romanzo autobiografico su una escursione nelle isole Ebridi, sempre rimandata nell’adolescenza e realizzata solo dieci anni dopo la scomparsa della madre.

Per fortuna, nel caso di Tiriolo, di anni ne è passato solo uno. E finalmente, un mattino di gennaio freddo ma soleggiato, con due auto da Lamezia raggiungiamo la nostra meta a nord dell’Istmo di Catanzaro. La posizione a 690 metri di altitudine sopra il colle Lairta, che segna il displuvio tra la valle del fiume Amato sul versante tirrenico e quella del fiume Corace sul versante ionico, dovette risultare strategica ai colonizzatori greci dell’VIII sec. a. C., arrivati a sostituire o inglobare le genti indigene. Furono loro a chiamare il sito Tryoros (da cui Tiriolo) dai tre monti che lo circondano. Il subentrare ai greci, in età ellenistica (IV-III sec. a. C.) della popolazione italica dei Brettii segnò l’epoca del massimo splendore della città, che dopo l’annessione della Calabria ai romani si tramutò anch’essa in colonia.

Oggi il borgo, già feudo dei Ruffo, dei Carafa e dei principi Cigala, non raggiunge i 4 mila abitanti. Da piazza Italia, dopo aver parcheggiato, godiamo di un primo affaccio magnifico sul panorama, accanto al monumento dedicato a Ulisse: un tributo alle teorie dello studioso tedesco Armin Wolf, che in Tiriolo avrebbe identificato l’ospitale Scherìa dei Feaci cantata da Omero.

Ci avviamo poi a piedi verso il centro storico sotto gli occhi di alcuni curiosi. Rispondendo al saluto di uno di loro, ne approfittiamo per farci indicare le attrattive da non perdere. Fra l’altro veniamo a sapere che qui, nel 1640, venne ritrovata una lamina bronzea iscritta con un decreto del senato romano che vietava o regolarizzava le trasgressive feste in onore del dio Dioniso. Oggi però i discendenti dei Brettii hanno trasformato quei baccanali in un festival agostano di musica, danza e gastronomia.

È una vera arrampicata in salita nell’intrico di vicoli, ammirando i decori di alcuni palazzotti nobiliari e curiosando in qualche bottega di artigianato artistico, tra maschere apotropaiche e “vancali” o stole lavorate al telaio. Fin su al castello Sant’Angelo, l’antica rocca normanna distrutta dal terremoto del 1783, i cui ruderi incoronano la sommità del borgo.

Una sosta è necessaria per riprendere fiato, ma soprattutto per godere di un colpo d’occhio unico sui due mari, lo Ionio e il Tirreno: a est  svetta il monte Tiriolo, con sulla cima i resti di una fortificazione bizantina del VI secolo; verso sud est si profilano Catanzaro e il litorale ionico, a sud le Serre, Pizzo Calabro e la costa tirrenica (grazie alla giornata limpida, sono visibili anche l’Etna e lo Stromboli), mentre a nord domina il verde cupo dei pini, faggi e abeti della Sila Piccola. Dovunque, poi, campi coltivati a viti e uliveti, soprattutto uliveti: non per niente Tiriolo è nota anche come “città dell’olio”.

Delle numerose chiese, retaggio di una fede sentita, purtroppo non riusciremo a visitare nessuna, per via del tempo disponibile o perché chiuse come la Madonna della Neve (la chiesa madre), dedicata alla patrona della città, e quella, antichissima, della Madonna Bambina: una delle rare testimonianze dell’architettura basiliana, introdotta dai monaci di rito greco in questa regione.

Ridiscendiamo per raggiungere, in via Pitagora, un Polo museale che conferma Tiriolo antica come uno dei più rilevanti centri pre-romani dell’intero Istmo lametino. A gestirlo, è la Cooperativa Scherìa, una delle più grandi del Sud Italia. Alla biglietteria del Museo Archeologico, allestito in un palazzo di epoca fascista, facciamo conoscenza con un giovane archeologo della Cooperativa, Felice Scozzafava, che con orgoglio si presenta come un tiriolese che ha scelto di restare, per amore della sua città e della sua professione. È lui a illustrarci nelle sale espositive reperti legati alla frequentazione umana del territorio a partire dal Neolitico, e poi a farci da guida nell’adiacente Parco archeologico urbano di Gianmartino.

Gli scavi qui iniziati nel 2014 hanno riportato parzialmente alla luce le strutture – sigillate da un violento incendio – di un edificio del IV-III secolo a. C.: il cosiddetto Palazzo dei Delfini, ovvero un corridoio colonnato sul quale si affacciano quattro ambienti, due dei quali di notevole pregio, come suggerirebbero la porta monumentale d’accesso, i capitelli finemente decorati, i resti di intonaci dipinti e il mosaico pavimentale con la rappresentazione di due delfini (da cui il nome). Felice, che a questi scavi ha partecipato, ne parla come di un vero unicum che getta nuova luce sulla misconosciuta cultura brettia.

Tra i reperti recuperati ed ora esposti nel Museo o custoditi nei suoi depositi: manufatti bronzei, statuine femminili in terracotta e circa 300 tra monete brettie di bronzo e cartaginesi d’argento. Si ignora la destinazione d’uso dell’edificio, che comunque doveva avere in parte una funzione religioso-sacrale. Dai futuri scavi gli archeologi si aspettano nuove meraviglie, la comunità cittadina un rinsaldarsi dei valori identitari, gli amministratori un rilancio turistico ed economico del comune.

Dopo questo tuffo nel passato remoto di Tiriolo, nuova sorpresa nell’immobile di via Pitagora: il Museo del costume regionale, nel suo genere una delle collezioni più ricche e interessanti della Calabria, frutto di un lungo lavoro di ricerca e di studio, oltre che della riproduzione fatta da una delle artigiane locali più apprezzate. Gli esemplari di costumi comprendenti anche le minoranze etno-linguistiche arbëreschë e valdesi, da Caraffa a Guardia Piemontese, incantano per varietà, bellezza e capacità di far apparire regine perfino delle semplici popolane.

Non è tutto. Nel borgo e negli immediati dintorni resta ancora molto da scoprire: dalle chiese già citate all’Ecomuseo e Osservatorio astronomico, dai mulini sul fiume Amato ai sentieri escursionistici sui rilievi vicini. Senza trascurare alcune specialità locali gastronomiche come le scilatelle al ragù di carne di capra con olive, i ferrazzuoli ai porcini, pomodorini e cipolla di Tropea, il pollo alla diavola e per finire un cremoso di ricotta alla liquirizia con croccante al bergamotto. Una cosa è certa: a Tiriolo ritorneremo.

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