Carpaccio Libertà della fantasia

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Vivesse oggi, sarebbe una specie di Georges Luckas di Guerre stellari o, per fare un passo indietro, un Cecil De Mille del filone fantareligioso hollywoodiano. Perché la spinta a raccontare è identica – anche se l’epoca e i committenti ben diversi -, nell’identico veleggiare tra cronaca contemporanea e leggenda fantastica. Con qualcosa che però lo distingue nettamente. È un pittore, per di più veneziano. Il che vuol dire contatti con l’Oriente, grazie alla sua città stessa, centro cosmopolita dai molteplici interessi, unico per un artista dall’occhio acuto, come lui, Vector Scarpazha, latinamente Carpathius. L’Oriente: costumi, stili di vita impensabili per gli europei, ma così affascinanti, da suggestionare la fantasia. E poi la passione per i colori forti, la luce solare, gli spazi grandiosi. Sui quali inscenare racconti, che, da Marco Polo in avanti si fanno patrimonio comune, teatro di realtà e di sogno, dove l’esotico va insieme al locale, i turbanti turchi accanto ai gondolieri, i ricevimenti a Palazzo Ducale si accompagnano a moschee e minareti. Certo, Venezia possiede una tradizione pittorica narrativa da decenni, quando Vettor, verso il 1490 fa il suo esordio alla grande sulla scena artistica, a fianco di personaggi come i Bellini, i Vivarini, Cima e Antonello. Senza dimenticare gli echi della scuola ferrarese o di Piero della Francesca. Impossibile restarne fuori, non amare la razionalità prospettica, il senso cromatico sulla nettezza del segno, l’impaginazione aperta, così che dai teleri si svolga quella voglia di narrare, tipicamente veneziana: una recita continua dove il presente richiama il passato e viceversa, con estrema naturalezza. Ma Carpaccio vi indugia più dei contemporanei – forse qui sta la sua vera vocazione -, ricordando i racconti di Guariento, Gentile e Pisanello, di quegli artisti – oggi li chiamiamo tardo gotici – che dal Trecento per tutta Europa (ed Italia) accanto al linguaggio giottesco, hanno inventato un parlare raffinatissimo, un desiderio di sognare, un piacere immenso nel descrivere un’umanità reale e favolosa insieme. Vittore ne tiene conto quando trasmette alle sue tele un’aria di magia, ma pure l’amore per il dettaglio, per le ricostruzioni perfette di ambienti contemporanei: un microcosmo umano che lo affascina. Poniamo le Storie di sant’Orsola, all’Accademia veneziana, iniziate proprio nel 1490. Navi ormeggiate al porto, ricevimenti di ambasciate, cortei in una Roma così verosimile da pensare che il pittore ci abbia fatto una scappata; costumi ricchi, belli, figure di elegantoni a spasso fra i portici, vecchi curiosi in lunghe zimarre, e poi file di camini sui tetti, con gru cornacchie e quant’altri volatili a indugiare o svolazzare per un cielo azzurro- umido. La favola bella di Orsola e del suo principe, il viaggio e il martirio fra i barbari, risente delle storie di Pisanello e di Gentile Bellini, il loro indugiare tra ricordo e attualità; senonché Carpaccio ha ben presente che la favola contiene un nocciolo di verità ancor valido, se l’ambienta alla fine del suo secolo per i confratelli della Scuola che mediteranno e pregheranno davanti ai teleri. Così si permette, accanto agli svolazzi della fantasia e alle decine di figurine che animano gli spazi fuggendo dietro a portici e colonne, occhiate sull’animo dei personaggi. Perché maestro Vittore non è Ghirlandaio o Gozzoli, amabili decoratori di città e palazzi, nemmeno un Gentile, regista puntiglioso di cronaca cittadina. Carpaccio – nei suoi momenti migliori – le anime le studia. Ecco il sogno di Orsola. L’alba leggera entra con l’angelo dalla finestra. La luce, che è quella diretta di Antonello e dei fiammighi, fa uscire dalla penombra ogni oggetto: tutto è importante, un asciugamano, una coperta, due porte socchiuse, due finestre con i fiori. Il sogno corre attraverso questa luminosità diffusa che non evoca atmosfere (in questo la distanza fra il nostro e un Giorgione è abissale), ma, nella precisione di ogni singola cosa, descrive un’anima. Tutto è ordinato e pulito in quella stanza, perché così è l’animo di Orsola. C’è un misticismo sobrio, naturale, senza effetti speciali. La luce c’è, è bella e pura. Dice tutto da sola. Oppure, contempliamo la Visione di sant’Agostino nella Scuola di San Giorgio degli Schiavoni (1502-04). Lo studio, tipico di un prelato umanista dell’epoca, minuziosamente indagato dalla luce di primo mattino è, ancora una volta, uno scenario interiore. Specchi di lume indagano su tutto, dal cagnolino ai volumi alle pareti. Ma, al contrario dei fiammighi che pure ricorda, qui non si va dal dettaglio all’universale, bensì all’incontrario. È il fiotto luminoso sul volto di Agostino a sciamare in raggi che rendono vivo l’ambiente. È la sua anima, in definitiva, proiettata su tutto ciò che lo circonda. Certo, Carpaccio, abilissimo illustratore, sorprende. Alterna infatti questi squarci interiori a pagine corali di ampio respiro, ma si insinua pure in dettagli miniaturistici. Così all’impaginazione aerea del Trionfo di San Giorgio agli Schiavoni – col tempio peruginesco al centro – segue la veduta d’insieme del Miracolo della croce (Scuola di San Giovanni evangelista) con l’indimenticabile Venezia di gondole sul Canal grande, di folla sulle calli, di un’aurora tersa allora come oggi. Ma la fuga dei monaci nel San Girolamo e il leone che dal primissimo piano corre sino all’orizzonte in uno sventolio di cappe è un divertissement di rara giocosità, per non citare (Ciclo di sant’Orsola, Arrivo degli Ambasciatori) la barca e il barcaiolo che scivolano sulle onde verdastre verso un lontano approdo: un cameo quasi invisibile in una scena di grande cerimoniale. 1514: Giorgione, l’innovatore, è scomparso, Giovanni Bellini, anziano, è rincorso dagli emergenti Tiziano e Sebastiano. Venezia è una fucina di geni. Carpaccio, rischia di sembrare un attardato. Il ciclo di santo Stefano, di quegli anni, dimostra che il maestro è in crisi. Ricicla storie che stanno andando fuori moda di santi e di leggende favolose, spedisce tavole in provincia, gestisce una bottega familiare che rende bene, ma non in città. L’ispirazione è stanca. Ma Carpaccio, pur grande ritrattista, è sé stesso soprattutto quando racconta storie. Nella Disputa di santo Stefano – il pezzo migliore del ciclo – ritrova la sua vena. Un’architettura scandita, un paesaggio lucido e largo, il colore che gioisce sui costumi bizzarri, e il fascino discreto della sua poesia narrativa: arte non prepotente, capacità di parlare a tutti, un qualcosa fra il lirico e l’elegiaco. Nella folla di confratelli in lunghe zimarre alternati a personaggi dai copricapi fastosi, gira ancora una candida voglia di stupore, un senso ingenuo di meraviglia. Per la luce, il colore, gli abiti, i volti. Di fronte all’umanità subito gloriosa dei contem- poranei più giovani, Carpaccio sceglie di cantare quasi in lontananza. Non importa se il pennello dei collaboratori scivola talvolta nella mediocrità di figure legnose, paesaggi stantii, colori sottotono. Quando il vecchio Vettore mette mano, tutto si ravviva come per miracolo. Il film continua, la storia si fa bella. Un ritardato, un superato? Piuttosto uno fedele a sé stesso – e al gusto veneziano del racconto – sino alla fine. La rassegna attuale, con le tele giunte da Milano, dal Louvre, da Berlino sono uno specchio di questa vicenda umana e artistica. Tutta da riscoprire.

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