Carpaccio a Conegliano
Ci sono cittadine che hanno la fortuna e l’ingegno di presentare periodicamente piccole, ma grandi mostre. Conegliano, patria del pittore-poeta Giovanni Battista Cima, è una di queste. Così questa volta offre al pubblico una rassegna a dir poco seducente, ossia “Vittore e Benedetto da Venezia all’Istria”, aperta a Palazzo Sarcinelli fino al 28 giugno (catalogo Marsilio).
Il luogo comune che Vittore Carpaccio, negli ultimi anni, si sentisse e fosse un emarginato, uno superato dagli incalzanti geni di Sebastiano e Tiziano, viene sfatato osservando alcune delle opere dipinte da lui nei primi venticinque anni del ‘500. Un ritardatario, uno che ha smesso di ricercare e di rinnovarsi lavorando in provincia e per di più nella lontana Istria? Tutt’altro.
Quando si osserva la formicolante tela della Crocifissione dei diecimila martiri sull’Ararat, anno 1515 (Giorgione è già morto da cinque anni) ci si trova davanti ad una selva autentica di corpi giovanili inchiodati nelle più diverse maniere e posizioni, una vera e propria esercitazione stilistica e anatomica, uno di quei racconti magici che sono il meglio di Carpaccio. La luce è così bella e chiara, le figurine così vive ed il senso del miracolo tanto stupefacente che la favola del martirio diventa una “legenda” religiosa di mirabile inventiva e freschezza. La complessità del racconto e della raffigurazione si semplifica in un microcosmo drammatico e contemplativo di tonalità fredde e smaltate: è un Carpaccio sperimentatore come sempre, lontanissimo dalla monumentalità aggressiva di Tiziano e Sebastiano.
È il pittore dei sogni come nel San Giorgio e il drago del 1516 (nella foto), una versione poco nota perché si trova in un sala interna del convento di san Giorgio Maggiore a Venezia. Pittura slanciata, con l’impeto del biondo cavaliere che trafigge il drago, il golfo azzurro sotto i monti scoscesi, limpido di prima mattina, la pennellata allusiva e rapida sul terreno e le forre: insomma, qui troviamo un artista che è andato molto avanti rispetto alle opere precedenti, che usa il pennello con libertà, fa sognare combattimenti cavallereschi col gusto del macabro e del mistero ed una grazia acerba nei personaggi che gli è propria.
Carpaccio non è pittore grazioso. La Pala di Pirano del 1518 con la Madonna e i santi sotto una loggia aprica ha colori bassi , santi duri, un mazzo di fiori slabbrati, un duo angelico poco educato, uno dei quali accorda il liuto a gambe larghe, indifferente alla Sacra Conversazione.
Carpaccio è qui vicino al Lotto della Pala di san Bernardino bergamasca, con lo stesso angelo-ragazzo vispo che lì ci ficca gli occhi addosso, qui non ci guarda nemmeno. Più ordinato diventa invece nella Pala di Capodistria, come se si fosse pentito della precedente: i colori sono più luminosi, le figure meno tese, anche se il giovane san Rocco presenta con insistenza la sua piaga alla Vergine indifferente e al Bambino che, almeno lui, lo ascolta.
Ovvio, Carpaccio non fa tutto da solo, dato che continua la tradizione veneziana della bottega familiare. Così troviamo il figlio Benedetto che prosegue l’arte del padre dopo la morte di costui, ma occorre pur dire stancamente, come dimostra la tela dell’Adorazione del Nome di Gesù con il gruppo dei santi intorno al monogramma e al solito golfo. Eppure, storicamente importante, perché fa comprendere una attività antiereticale e riformatrice ben diffusa nell’Istria inquieta di quegli anni. L’aveva dimostrato Vittore nel grande san Paolo dal cuore trafitto, immagine di assoluta originalità e forte concretezza da parte di un instancabile ricercatore.