Caro Gramsci
Facciamola finita, venite tutti avanti, nuovi protagonisti, politici rampanti; venite portaborse, ruffiani e mezzecalze, feroci conduttori di trasmissioni false. È singolare che tornino alla mente questi versi di Francesco Guccini, versi di una canzone che mette a confronto i nani coi giganti; e che vengano in mente qui, nel piccolo giardino, chiuso fra le mura della casa, che si misura da un angolo all’altro con pochi passi. È qui che Gramsci bambino inventava i suoi giochi. Ed è giusto, mi sembra, fermarsi – col pensiero – a Ghilarza, il paese nel cuore della Sardegna dove Nino crebbe e cominciò a prendere le misure della vita, per guardare a questo anno 2007, settantesimo dalla sua morte e perciò ricco di celebrazioni e approfondimenti in tutto il mondo. Il giardino comunica un’impressione molto netta, che può forse riassumere la vicenda del pensiero gramsciano: di come, cioè, il piccolo possa diventare grande, il particolare possa aprirsi all’universale. L’effetto moltiplicatore Dopo i mille discorsi dotti di questi dodici mesi, due cose – fra le tante notevoli di un personaggio che continuamente viene riscoperto – mi sembrano da sottolineare. La prima, che Antonio Gramsci è stato un pensatore. Intendo un pensatore vero, non un ripetitore, e neppure un interprete di quelle marmellate tristi che così spesso oggi vengono chiamate pensiero politico. Lo si vede chiaramente dai suoi scritti, nei quali ritroviamo tutti i fondamentali problemi filosofici e politici presenti nelle opere di Marx e nel dibattito interno al movimento marxista, ma riproposti con un linguaggio proprio, che compone un complesso di pensiero coerente ed originale. Ciò significa che i problemi sono stati vissuti e intesi in maniera che è, ad un tempo, diretta e personale, ma anche espressione di una cultura italiana – e sarda e mediterranea – nella quale Gramsci si radica. La sua concezione dell’egemonia – e la logica che la nutre, le teorie che vi si sviluppano – è oggi una delle principali risorse, la più vitale, forse, tra le poche rimaste, dell’analisi sociale marxista. Ebbene questa concezione, discussa in tanti modi anche lungo quest’anno, venne elaborata da Gramsci non studiando la Rivoluzione di ottobre, o quella statunitense o francese, ma analizzando il ruolo dei moderati nel corso del Risorgimento italiano. E non ha attraversato gloriosamente i decenni bene impacchettata, esposta in un pensiero sistematico e tipograficamente squadrato dall’autore in solidi volumi, ma ci giunge – dal buio di anni in cui altri pensatori venivano a patti con i regimi dittatoriali di allora – nelle note e negli appunti scritti di un piccolo sardo nel fondo di una galera, misurando la carta, e l’inchiostro, e i respiri. Ed è questa la seconda cosa da sottolineare: che le parole di Gramsci svettano dal profondo di un sacrificio personale. E questo aggiunge un peso valoriale e umano non misurabile all’intelligenza che contengono. Gramsci è una figura sacrificale tipica, di cui la prima metà del nostro Novecento è ricca: ricordiamo Giacomo Matteotti, i fratelli Rosselli, Pietro Gobetti; tutti uomini che, certamente, hanno agito, ma la cui azione fondamentale fu la coerenza di consegnarsi ad una morte moltiplicatrice delle loro idee. Gramsci appartiene a questa tipologia di uomo e di intellettuale. Certo, la generosità esistenziale non mette al riparo dagli errori; l’eroismo, di per sé, non garantisce che sia vera l’idea; ma il fatto di darsi, di mettere la vita nel piatto della bilancia, spiega come dal piccolo si può passare al grande, come la dimensione del sacrificio umano sorregga e conduca l’intelligenza dal particolare – che ci vuole, ché contiene il seme – all’universale del pensiero nel quale molti altri – altri di lingua, di generazione, di continenti – si riconoscono. L’attualità di Gramsci Un esempio può dare un’idea dell’attualità di Gramsci. Nel periodo successivo agli attentati alle Torri Gemelle di New York, in molti Paesi si tradusse un libro che il politologo statunitense Joseph S. Nye aveva in realtà scritto nel 2000: Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può agire da sola. In esso, Nye distingueva due tipi di potere: quello duro, di tipo tradizionale, di cui sono espressione il potere militare ed economico: in questo, scriveva lo studioso, gli Stati Uniti non sono secondi a nessuno. Ma è nell’altro tipo di potere che gli Usa mostrano la loro debolezza, il potere leggero, il soft power: Un Paese – spiega Nye – può raggiungere i propri intenti in politica internazionale perché gli altri Stati vogliono seguirlo, stimandone i valori, emulandone il comportamento e aspirando ai suoi livelli di prosperità e apertura (…). Questo aspetto del potere, indurre gli altri a volere ciò che tu vuoi, è ciò che definisco soft power. Il soft power fa scegliere le persone invece che costringerle. Il dibattito sulla crisi del modello valoriale degli Stati Uniti, sui diversi aspetti delle nuove forme di impero, ha dominato la scena politica di questi ultimi anni. Ebbene, la teoria del soft power di Joseph Nye altro non è che una variante recente della gramsciana teoria della egemonia: con questa, il sardo trasformava l’idea di rivoluzione permanente di Marx ed Engels, concentrando la propria attenzione sui modi con i quali un gruppo sociale può diventare la guida dell’intera società, trasmettendole i propri valori e i le proprie idee: di esserne, cioè, il gruppo dirigente nella vita e nella cultura, prima ancora – e come condizione – di prenderne il governo politico. La visione che Gramsci ha del rapporto fra lo Stato e la società sfugge così, a me sembra, a certe forme di rozzezza presenti nel marxismo ufficiale, il quale descrive un legame quasi meccanico tra apparati istituzionali (lo Stato) e gli interessi di classe: in Gramsci questo rapporto è dinamico e cangiante, molto più vicino alla realtà. Quando il marxismo si accorse nel corso del Novecento, della povertà del proprio pensiero sui legami sociali, Gramsci, con la sua maggiore capacità di vedere dentro la società e la cultura, costituì una vera e propria ciambella di salvataggio. Gramsci conserva poi, in effetti, la concezione marxista-leninista dell’estinzione dello Stato e, anche se la articola in maniera più attenta nel cogliere le dinamiche tra i diversi soggetti, gli aspetti problematici e non condivisibili rimangono gli stessi. Ma la profondità del suo pensiero sociale (anche quando, a mio avviso, sbaglia) rimane una sfida attualissima. Pensiamo all’applicazione che egli fa dell’idea di egemonia intesa come pedagogia della società. Nei Quaderni del carcere egli descrive l’esistenza di un rapporto pedagogico fuori dalla scuola, nel sociale, cioè coinvolgente l’insieme della vita. È una pagina fondamentale che spiega come si crea l’uomo collettivo: Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico. Certamente, con queste idee Gramsci riprende il tema pedagogico tipico della Rivoluzione francese del 1789: è il grande tema giacobino dell’educazione, intesa come manipolazione, come costruzione di un uomo nuovo, trasportato nel contesto civile novecentesco dei grandi partiti di massa. Certamente, se si guarda alle deformazioni e alle aberrazioni cui può condurre l’idea della manipolabilità dell’uomo (si pensi alla Cambogia dei Khmer rossi), vengono i brividi; ma pensiamo anche alla profondità dell’intenzione presente in questa prospettiva: Gramsci avverte dentro di sé – e non resta un sentire, diventa un pensare – che una vera rivoluzione non può non essere interiore, non può non toccare tutti gli aspetti della vita dell’uomo; Gandhi, in quegli stessi anni, anche se in un contesto e in una cultura completamente diversi, diceva le stesse cose. Il problema – nel confronto tra le intenzioni e le conseguenze – è che, a contare davvero, è il come; Gandhi era disposto a dare la vita, non a togliere quella degli altri; la presenza della violenza nella storia non costituiva, per lui, un destino, ma una possibilità cui si può rinunciare per una vita migliore. Gramsci invece accettava anche l’idea della violenza e, con coerenza dialettica, pensava (per me, illudendosi) di poterla incanalare; potremmo dire, paradossalmente, che la vita è stata buona con lui; non gli uomini (che allora lo condannarono), ma la vita che, facendolo soffrire, lo ha purificato e dunque, in qualche modo misterioso, lo ha preparato per una assoluzione, davanti alla domanda che sempre la coscienza pone a ciascuno: hai fatto il male o il bene? I tuoi carcerieri Mi si permetta di concludere rivolgendomi direttamente a te: ci sarà sempre tempo, caro Gramsci, o almeno qualcuno sempre lo trova, per dire dove e quanto hai sbagliato, per discettare sui limiti della tua politica e sui pericoli della tua ideologia; ma in un’epoca così prodiga di capi-popolo ignoranti, di contabili del consenso, di ruffiani e mezzecalze, alla fine del tuo anno, ci sia consentito di levarci il cappello davanti al piccolo sardo che è divenuto un grande: a settant’anni dalla tua morte, ancora ti si studia; i nomi dei tuoi carcerieri non se li ricorda nessuno.