Carnera Primo, ottant’anni dopo
Il vizio della memoria è sempre stato coltivato nei suoi confronti: Primo Carnera, nato il 25 ottobre del 1906 a Sequals, provincia di Pordenone. Il mito narra di un gigante alto 205 centimetri per 125 chilogrammi di peso anche se documenti di famiglia sembrano smentire il dato dichiarando un’altezza più “umana”: 196 centimetri. Ma importa così tanto saperlo? È dai centimetri che si misura la vera statura di un uomo?
Sono passati ottant’anni da quel 29 giugno del 1933 quando il nostro Primo “gigante buono” Carnera conquistò sul celebre tappeto del celebre Madison Square Garden di New York il titolo di Campione del mondo dei pesi massimi. La prima volta per un italiano, in un’epoca dove la boxe era ancora considerata un’arte nobile e non portava le stimmate di uno sport per giovani attaccabrighe scapestrati.
Una carriera cominciata per caso o per destino, a voi la scelta. All’età di quindici anni Carnera saluta famiglia, parenti ed amici, lascia la miseria della vita di provincia ed emigra in Francia dagli zii in cerca di fortuna, così come fecero 23 milioni di Italiani che in un secolo, dal 1870 al 1970, lascarono il Bel Paese con la speranza di una nuova vita possibile.
Senza soldi, sapendo a malapena leggere e scrivere, il giovane Primo lavora come carpentiere, poi come fenomeno da baraccone nelle lotte al circo, ingaggiato da un impresario con il fiuto per gli affari che non ci mette molto a cogliere le capacità atletiche di quel povero giovane italiano.
I primi incontri sul ring in Europa sono il sogno premonitore di ciò che accadrà solo una manciata d’anni dopo negli Stati Uniti. Con le tournée in America, Carnera combatte fino a sei incontri al mese. Guadagna bene e con i primi risparmi messi da parte, invece che pensare ad organizzare il viaggio per rivedere la sua famiglia, dona tutto quello che ha per la ricostruzione dell’asilo di Sequals distrutto dopo la Grande Guerra.
Léon See, il suo manager, costruisce la scalata al titolo mondiale, combina i match, ne aggiusta alcuni a favore del suo assistito, occultando notevoli somme di denaro. Fino alla vittoriosa e drammatica semifinale contro l’americano Ernie Schaaf che muore pochi giorni dopo l’incontro a seguito dell’aggravarsi dei traumi subiti in un precedente incontro.
Fino al 29 giugno 1933: Primo sul tetto del mondo, di nome e di fatto, emblema di una propaganda fascista imperante, modello del superuomo italico in terra d’America. Un’America piena zeppa di immigrati italiani che si identificano in lui perché sono in molti ad essere come Carnera.
La signora Lucia da Fregona, in provincia di Treviso, ha i capelli bianchi, la pelle scavata nelle rughe, ma tiene in mano con la felicità di una ragazzina al primo autografo una busta piena di foto scattate a Caracas, in Venezuela, nel ristorante aperto dai genitori: un lungo tavolo, qualche fiasco di vino impagliato, i piatti sporchi del pranzo e un mucchio di gente attorno ad un grande omone sorridente. È lui, Primo Carnera. Quello a cui non bastava la spalla di una ragazzina di tredici anni per appoggiare la mano.
Mito del gigante, mito del migrante. Partito dall’Italia senza un soldo, tornato con 43 dollari in tasca a causa dei brogli del manager, ma con una cintura di Campione del mondo nella valigia. Un mito perpetuo entrato nell’etimologia della lingua italiana. «Quel bambino è proprio un Carnera», si dice qualche volta, per indicare un neonato di stazza imponente.
Carnera rivive, in un’Italia sfigurata da un crisi che costringe migliaia di giovani ad andarsene. Difficile sarà vedere un altro pugile italiano Campione del mondo al Madison Square Garden di New York. «Sono un gigante buono – diceva Primo – e cerco il mio posto nel mondo». Allora come oggi, la storia si ripete. Ecco perché ci sentiamo tutti un po’ Carnera.