Carlo Saraceni, un veneziano a Roma

La Capitale gli dedica una rassegna monografica a Palazzo Venezia con decine di opere da tutto il mondo. Alla scoperta di un artista ancora poco conosciuto, capace di regalare grandi emozioni
Carlo Saraceni

Che Roma agli inizi del Seicento fosse un laboratorio europeo – mondiale, si potrebbe dire – d’arte, è noto. Non c’erano solo Caravaggio o i Carracci, ma anche Gentileschi, Lanfranco, il Cesari, il Domenichino. Nomi noti e arcinoti. Un artista non così conosciuto al grande pubblico come gli altri è Carlo Saraceni, un veneziano che arriva sui vent’anni a Roma e vi resta fino a poco prima di morire, nella sua Venezia, nel 1620.

La capitale gli dedica – finalmente – una rassegna monografica con decine di opere da tutto il mondo a Palazzo Venezia (catalogo De Luca) ed è una scoperta.

L’uomo era simpatico, vanitoso, allegro e ben inserito tra prelati, cardinali, principi e ricchi borghesi. Dipinge per chiese e cappelle, per la devozione e la collezione privata, ma anche per palazzi come il Quirinale dove, insieme a Lanfranco, completa negli anni 1616-27 una splendida serie di affreschi celebrativi e allegorici con le ambascerie orientali e i profili tipici con i costumi sgargianti di personaggi del tutto nuovi per la corte romana.

È un eclettico ma non un superficiale. Cita e conosce i veneti, Caravaggio, i francesi e i fiamminghi, ma a modo suo: ha mano veloce e sicura, bel disegno, colorito fresco e caldo, fantasia illuminata.

Gli piace il mito, ed ecco il piccolo olio su rame Venere e Marte, dove gli amorini giocano con i vestiti dei due amanti, i cui corpi abbronzati e levigati partono da Raffaello e Giulio Romano ma hanno il calore veneziano, la sensualità misurata ma vera e un'ambientazione classica allora di moda. Gli piacciono le storie di Teseo e di Arianna, di Dedalo e Icaro, anch’essi piccoli rame delicati, dove il pennello vaga per cieli celesti, acque dolci e corpi perfetti: in fondo è quel mondo antico che Roma, la Roma papale controriformistica, non poteva dimenticare o negare del tutto. Basti vedere il deliquio – fisico e sentimentale – del San Sebastiano di Glasgow: santo, guerriero o dio pagano?

Ma Carlo dipinge anche e soprattutto tante pale d’altare, tanti santi e sante. Ci sono scene deliziose, dove reinterpreta a modo suo Caravaggio o il Barocci: mai arrogante, mai agitato, sempre pacifico e cordiale. La Madonna col bambino e sant’Anna (Galleria Barberini, Roma) è un quadretto familiare: la vecchia nonna offre una colomba al grosso bambino e la mamma in rosso e blu glielo indica perché non abbia paura di prenderla. Siamo in una tenerezza casalinga, c’è Caravaggio allo spalle, ma qui siamo sul piano del sentimento affettuoso, dolce e sincero, senza spasimi.

Oppure, la Santa Cecilia che suona un chitarrone ispirata dall’angelo, bella ragazza romana che attende il cherubino che le detta “il tempo”, lasciando un attimo il suo violone. Carlo è preciso, descrive gli strumenti, colora ombre soffici, è naturale nell’espressione, mai caricato o troppo teatrale. Il San Benno a Santa Maria dell’Anima è giocato su chiaroscuri delicati e caldi, su figure che emergono da un fondo neutro con morbidezza, senza essere aggressivi. E anche il pathos dei suoi santi e dei suoi martiri non è mai esagerato: Carlo pare sempre calmo.

Ma è capace di inscenare tragedie immense, squarci drammatici singolari. Vedere il Diluvio, da poco ritrovato, a sant’Agata dei Goti: quel fulmine saettante che squarcia le nuvole cupe – lontano ricordo giorgionesco – e la folla in lacrime in primo piano è teatro drammatico di prima grandezza, eloquenza misurata, recitazione di luce e colore. Carlo Saraceni è capace anche di questo, lui e la sua folta bottega, crogiolo di tanti anonimi artisti.

Fino al  2 marzo.

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