Carlo Alianello, “cavaliere” di Maria
Scrittore fra i più significativi del nostro Novecento (c’è chi lo colloca in una posizione mediana tra Balzac e Manzoni), Carlo Alianello (1901-1981) viene ricordato soprattutto per i romanzi L’alfiere e L’eredità della priora, i tre racconti di Soldati del re e il saggio romanzato La conquista del Sud con i quali lo scrittore romano di origini lucane dà una sua rilettura del nostro Risorgimento, trovando nella Basilicata lo scenario ideale per la guerra civile consumatasi nel Meridione all’indomani dell’unità d’Italia. Rinverdirono il successo dei due romanzi citati (ai quali va aggiunto almeno L’inghippo del 1973), gli sceneggiati televisivi diretti dal mitico Anton Giulio Majano che ne vennero tratti negli anni 1956 e 1980.
Minore, invece, il favore incontrato presso il pubblico da altri tre titoli nei quali Alianello esprimeva più esplicitamente la sua profonda fede cattolica: Il mago deluso (1947), Maria e i fratelli (1955) e Nascita di Eva (1966), ingiustamente finiti nell’oblio. Va dunque alle Edizioni Solfanelli il merito di aver riproposto di recente il secondo romanzo di questa triade.
Notevole per afflato spirituale, padronanza di scrittura ed eleganza di stile, Maria e i fratelli ripercorre l’intera vicenda umana del Figlio di Dio ponendo al centro del racconto la Madonna e il suo nucleo familiare (i fratelli, ovvero i cugini) del quale Gesù fece parte fino alla raggiunta maturità, prima di dedicarsi alla sua missione salvifica. In esso Alianello sottolinea la piena consapevolezza di Maria e di Giuseppe riguardo a tale missione, ciò che non risparmia loro dolori e angosce: come quando, di ritorno a Nazareth da Gerusalemme, entrambi si accorgono che Gesù è sparito dalla carovana del pellegrinaggio.
Dopo l’uscita di scena del suo padre putativo, rimasta sola Maria ad affrontare il chiacchiericcio e le incomprensioni dei nazaretani davanti ai primi “segni” di Gesù, il romanzo prosegue conforme al racconto evangelico fino alla passione, morte e risurrezione di Cristo, per cui non c’è nulla che il lettore non si aspetti. Eppure l’arte dello scrittore, oltre a dar vita a dialoghi ed episodi caratterizzanti lo scenario ambientale e umano in cui si svolge il dramma divino-umano del Salvatore, riesce, col ritmo incalzante delle sequenze relative alla Passione, dal taglio quasi cinematografico, a mantenere il lettore col fiato sospeso al punto da fargli immaginare come possibile un finale alternativo, diverso.
L’originalità di Alianello sta nell’aver voluto riscrivere la vicenda di Cristo dal punto di vista di chi lo amava di più: la Madonna e il suo clan, composto dallo zio Manasse e dalle cugine Marjam e Salòme, nonché dai loro mariti e figli, i quali partecipano di riflesso alla vita, agli insegnamenti e ai miracoli di Gesù fino agli ultimi convulsi eventi.
Secondo Gianandrea de Antonellis, autore della Postfazione, l’altro elemento su cui insiste Alianello è la discendenza regale di Cristo, in quanto sia Giuseppe che Maria provengono entrambi dalla stirpe di David. Di qui il comportamento costantemente “regale” della Vergine, per nulla inficiato dalle ristrettezze nelle quali vive, che caratterizza la sua generosa disponibilità verso gli altri, il totale distacco dai beni materiali e dai ragionamenti interessati della parentela e di altri personaggi. Il fascino che da lei promana si palesa in tutti gli episodi che la riguardano, condotti da Alianello con delicatezza e poesia.
Due scene dal libro, la prima al festino di Cana, l’altra sul Golgota:
«”Che ho da fare con te, donna?” aveva detto lui, burbero. Maria rise e gli occhi le brillaron di tenerezza che quasi erano lacrime. Che ho da fare con te? Nulla, giacché non ce la voleva con sé ora che si mette in via per salvare le anime e il mondo. Perché tutte le anime aveva da salvare, meno una, la sua, ch’è già salva per non essere agganciata al male originario del peccato d’Eva. Per tutti è venuto al mondo, e per lei no. Anche per lei, ma la sua salvezza già era sicura dentro la mano di Dio, nel cavo della sua destra. Come lei al mondo non c’è nessuna, e lei è sola; col figlio, come suo figlio. Lo cercò con lo sguardo tra i convitati per non sentirsi sperduta, ma lui non c’era più».
La seconda:
«Gesù intanto guardava la madre con grande pietà. Sola, povera, scelta dall’eterno perché soffrisse quanto un’eternità. Fu sempre in solitudine, ma adesso lo sarà ancora di più. L’aria era scura e sull’alto della croce il viso di Gesù si distingueva appena; anche il gruppo ai suoi piedi svaniva in quel buio che una luce fioca trapassava a tratti con fatica. Ma madre e figlio si vedevano quanto bastava per intendersi. “Ora, povera mamma, che farai?”. “Sola mi lasci, figlio?”. “Ti lascio con l’amore. Tu sola sai l’amore. Te lo lascio nel mondo e per il mondo. Passalo dal più vicino al più lontano, per sempre”».
L’autore appare quasi compenetrato nei pensieri e nei moti interiori della Vergine. A lei, del resto, si era votato fin da ragazzo «come cavaliere a Dama e Signora», secondo ciò che lui stesso dichiara nel saggio del 1970 Lo scrittore o della solitudine, rievocando il suo ingresso in un collegio dedicato alla Madonna: «Ho giurato e, se non ho sempre mantenuto il giuramento, non fu mai per infedeltà, ma per debolezza. […] Però quella fede donata, quel prestato giuramento non l’ho scordato né lo dimenticherò mai per l’onore della mia Dama».
Non è esagerato affermare che il romanzo si presta ad una sorta di lettura meditativa, che riporta alla mente elementi fondamentali del messaggio cristiano. E se nel gennaio 1964, sulla rivista Studium, il critico Fausto Montanari fu indotto a scrivere: «Il libro ha avuto una modesta fortuna. Troppo religioso per i laicisti, troppo laico per i cattolici. La sorte di quasi tutti i libri cattolici vivi e intelligenti nel nostro ambiente italiano», la sua riproposta oggi dovrebbe poter suscitare nel lettore un giudizio diverso.
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