Carceri, rischio bomba sanitaria e sociale
L’emergenza coronavirus ha travolto, tra le altre cose, anche il sistema carcerario italiano. Gli effetti delle rivolte carcerarie degli ultimi giorni si sono abbattuti sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e sui vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per i quali sono arrivate le richieste di dimissioni da Italia Viva, con Boschi e Renzi esposti in prima persona, o di commissariamento straordinario, da parte della Lega.
Il ministro Cinquestelle ha relazionato in parlamento parlando di “atti criminali”, annunciando misure finalizzate alla prevenzione del contagio da Covid-19. Tra queste si parla dell’assunzione immediata di oltre 1.100 nuovi agenti di polizia penitenziaria e dell’incremento dei braccialetti elettronici, per alleggerire la pressione all’interno delle carceri.
Nodo della protesta, per la quale si contano 14 morti tra i detenuti, decine di feriti e diversi evasi ancora a piede libero, è che le carceri siano particolarmente esposte a eventuali contagi da Covid-19.
E non potrebbe essere altrimenti, dato che il livello di sovraffollamento, leggermente rientrato in seguito alla storica sentenza Torreggiani del 2013, è tornato a livelli insostenibili: «Già da un paio di anni la media di sovraffollamento è del 130%, con punte del 200% in alcune realtà del Nord Italia». A parlarcene è Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’osservatorio sulle carceri per Antigone, associazione che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale.
«La popolazione carceraria è cambiata negli ultimi anni, ci sono molte persone con problemi di natura economica e di salute, che finiscono in galera per piccoli reati e che portano dentro le carceri problemi nuovi, che nelle strutture non possono essere risolti. Il 40% di loro ha problemi psichiatrici, ai quali si aggiungono quelli di natura fisica».
Il panorama è più delicato di quello che si percepisce all’esterno, e il grido di dolore spesso passa inosservato: «In carcere è tornata prepotente la totale indigenza, che in situazioni di detenzione diventa insostenibile. Altro problema è la tossicodipendenza, al quale non si riesce a trovare soluzione».
La questione del contagio è, ovviamente, la miccia che ha scatenato la rivolta. La decisione è figlia dei provvedimenti emergenziali straordinari che hanno coinvolto la Nazione intera, ma il problema è stato nella comunicazione «hanno fatto passare il messaggio che fosse bloccato tutto a data da destinarsi, chiaramente una notizia del genere provoca paura, perché insinua il sospetto che nei carceri possa già circolare il virus». La questione si presenta dunque sul piano della perdita dei diritti: «sarebbe stato necessario comunicare dei correttivi, quali l’aumento delle telefonate a casa, per bilanciare la privazione».
La protesta divampata in decine di istituti, secondo Miravalle non è stata coordinata: «personalmente non credo che esista una regia delle rivolte. Esiste una paura e una mancanza di comunicazione di cosa fare che si è tramutata in violenza. Negli istituti dove i direttori hanno spiegato la situazione, queste rivolte sono state meno violente o non ci sono state proprio».
La paura di tutti gli addetti ai lavori è che la questione possa sfuggire di mano: «ogni sforzo deve essere concentrato per non far diventare le carceri dei lazzaretti. Siamo molto preoccupati, perché i luoghi sono sovraffollati e malsani, potrebbe diventare una bomba sanitaria e sociale. Le persone vulnerabili si trovi un modo di punirle diversamente e si garantisca un minimo di prevenzione».
L’eco delle proteste è stato sopito dall’emergenza, ma la questione carceri resta ancora in piedi, come lo è stata per anni, seppur nascosta sotto il tappeto. Alfonso Bonafede eredita una situazione più che critica, ma oltre ai correttivi sull’emergenza, che dovrebbero entrare nel prossimo dpcm, deve avviare una seria campagna di riforma del sistema carcerario.