Carceri per minori e “comunità carceraria”, è possibile?
È diventata una lotta impari e strenua. Sembra destinato a fallire sistematicamente il tentativo di pervenire ad un equilibrio nei rapporti di disciplina e di contenimento delle esuberanze di minori trattenuti negli istituti penitenziari.
È storia recente quella della evasione di due minori, e poi di un terzo dal Carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, dopo i disordini che si erano registrati nella stessa struttura solo qualche giorno prima.
Il problema è noto: sovraffollamento, inquietudine e disagi di minori (molti provenienti in Italia grazie ai flussi migratori che ben conosciamo, non accompagnati da alcun adulto) e dei quali manca anche la definizione del loro profilo psicologico: quindi se non si sa bene da cosa nasca questo disagio, si fà poi a fatica a pensare ad una terapia o ad un qualche trattamento specifico e mirato.
La sensazione è che in questi contenitori di ‘forzata’ sicurezza (per così dire, solo per usare un eufemismo), ci si preoccupi più di arginare possibili violenze che non di assicurare trattamenti rieducativi e riabilitativi.
Certamente gli organici della polizia penitenziaria soffrono anch’essi di una insufficienza ormai atavica e i turni lavorativi sono al limite (se non già ben oltre) delle normali capacità di tolleranza di ogni pur impegnato lavoratore.
E questo è un aspetto che non può essere preso in considerazione solo quando scoppia una rivolta o si assiste ad una qualche manifestazione di violenza: sia ben inteso, da qualunque parte provenga.
Qui non si tratta di vedere da che parte sta la sregolatezza e l’esubero (rispetto ad evidenti e necessarie regole di rispetto e di convivenza tra la popolazione carceraria e coloro che hanno la responsabilità e sempre anche l’ingrato compito di farle rispettare), o, meglio non solo: urge soprattutto costruire il significato e organizzare una sorta di ‘comunità carceraria’ dove, pur fissati paletti e condizioni di necessità e di opportunità, si cerchi di realizzarne gli scopi, di puntare al tempo della ‘rinascita’ alla vita civile di soggetti malcapitati, che forse non hanno nemmeno coltivato la prospettiva di non essere quello che sono stati o nel tempo diventati, magari assorbendo nefandezze e negatività che il loro peregrinare ‘per strada’ (soprattutto per minori ‘non accompagnati’) li ha condotti a fare.
Antonio Sangermano, capo dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia, in una recente intervista ha assicurato l’attenzione delle istituzioni al fenomeno di cui qui si tratta: nei prossimi tempi sarebbero previste assunzioni di centinaia di operatori sociali, così come di funzionari pedagogici e di assistenti sociali, nell’ottica di assicurare trattamenti che assicurino e contemperino ‘contenimento’ delle esuberanze di cui si diceva e attenzione alle specifiche esigenze dei minori detenuti, in vista di un loro recupero come ‘persone’.
Ma è doveroso chiedersi innanzitutto – come ha rilevato opportunamente don Claudio Burgio, cappellano del ricordato carcere milanese – se si è mai pensato di privilegiare, in prima istanza e attraverso corsi di alfabetizzazione, una maggiore conoscenza della ‘parola’ (s’intende: italiana) da parte di quei minori, di lingua straniera, che, per non aver avuto la possibilità di intenderne il significato, restano per ciò stesso relegati in una condizione di non-dialogo (seppure possa profilarsi la capacità di costruirlo da parte di chi abbia forza e tenacia per farlo).
È evidente che senza conoscere elementi almeno rudimentali della lingua nessun dialogo è possibile: di più, si pongono le condizioni di una condotta violenta proprio perché non mediata dalla necessaria ‘parola’ per tentare di disinnescarla.
Il mondo complesso in cui si collocano queste tematiche richiede un’attenzione non dettata dalle emozioni del momento, vista anche la sempre più preoccupante frequenza di condotte violente proprio da parte di soggetti minorenni, e spesso proprio alla soglia del raggiungimento della maggiore età.
Va elevato però – oltre che il livello qualitativo delle condizioni di lavoro degli operatori della polizia penitenziaria – il ‘tipo’ di approccio che quella che abbiano definito una sorta di ‘comunità carceraria’ deve poter assumere ed acquisire.
Un approccio che – grazie anche al sostegno essenziale (riconosciuto anche sul piano economico) di cooperative esterne e non solo di associazioni di puro volontariato – consenta di trasformare quei luoghi di detenzione in veri e proprio ‘laboratori di giustizia riparativa’, in funzione delle prospettive future – in termini di possibili inserimenti nel mondo del lavoro mediante nuove acquisizioni professionali e quant’altro – di chi si è trovato a fare i conti con una giustizia a volte troppo lontana dalla realtà problematica in cui egli vive o è costretto a vivere.
La necessità di costruire e realizzare in quest’ottica nuovi e proficui ‘progetti’ (e non solo politiche di ‘contenimento’) è di palmare evidenza.